Il Blog di Enzo Minarelli

Spingere il limite oltre il limite

 

Quando ho visitato la mostra in compagnia del direttore Francesco, la parola poesia spesso e volentieri è rimbalzata nei nostri commenti, allora inizierei con Rimbaud, il più maledetto tra i poeti maledetti, “la morale è la fiacchezza del cervello”, perché è proprio il caso di porsi la domanda che fine ha fatto la morale di questi tempi sempre più guerrafondai ammesso che ne esista ancora una parvenza. Una risposta plausibile e percorribile viene da quest’esposizione che riunisce in binomio la storica galleria bolognese e il DebatikCenter of Contemporary Art, sorto a Bologna nel 2003 con sede a Tirana sotto il comune intento di sottrarre l’arte dalle grinfie tentacolari di un mercato sempre più egemone, stavo per scrivere imperialista.

Un’operazione che ai bei tempi andati si usava definire di controcultura, e in parte di contropotere. Anche se la battaglia va condotta con mezzi mediali che allora come oggi sono decisamente impari, il peso specifico dell’intelligenza, però, fa emergere sempre invincibili valori siano essi in primis quelli di comunicazione diretta che di una resistenza a oltranza.

 

Tutti i lavori esibiti si ispirano alla logica del conflitto, del dissenso come suggerisce a ragione la curatrice Fabiola Naldi, alla logica dello scontro nel senso che il cineasta russo Sergej Ejzenstejn intendeva il montaggio filmico, ovvero l’idea, il concetto nasce dalla collisione tra due fattori anche opposti. Lo stridente contrasto tra la realtà di tutti i giorni e le contro-opere diventa tangibile sin dall’ingresso, con Underground movement UNTITLED (campo di meloni), 2025, la curatrice stessa scende in campo accoppiando due meloni di cemento armato a una porta di cella carceraria in ferro cromato, oltre alla evidente ironia rivolto alla nostra premier salta all’occhio il riferimento al seno come insostituibile entità femminile. In MÉNAGE à TROIS (which color is your flag) 2021-25 di Armando Lulaj, vediamo, appoggiate alla bianca parete, simbolo di una tristezza infinita, tre bandiere raccolte attorno a tre manici di scopa usati come aste, la stoffa è trattenuta in cima da altrettanti preservativi, le tre bandiere in questione sono, una italiana, una dell’Unione Europea e la terza americana. Sono state raccolte durante varie manifestazioni politiche in Albania, ciò che sembrava crollare nel 1989 in realtà si erge ancora invadente e consistente, si allude a quel tipo di violenza sia politica che esistenziale pronta indistintamente a colpire. Le tre bandiere avvolte nei preservativi lanciano un preciso j’accuse.

Il video di Pleurad Xhafa Reassemble, 2017, mostra un’azione svolta dentro il Museo di Storia Nazionale di Tirana, documentando l’inserimento e il posizionamento del caricatore mancante nell’arma che fu usata per uccidere Mussolini (donata da Walter Audisio all’Albania socialista nel 1957). Al di là del solito travisamento quando la storia viene inglobata nell’ingessatura museale, il senso profondo dell’opera vale come appello a uccidere i dittatori.

Infine l’altro video di cui voglio parlare l’ha girato Armando Lulaj, Breaking stones, 2017, vi compare un soggetto di sera, a fianco di un cassonetto per l’immondizia, l’uomo stringe tra le mani un grosso masso, mentre cammina lo sbatte con rabbia a terra, lo raccoglie e lo lancia ancora sull’asfalto fino a ridurlo a pezzi. Raccoglie un’altra pietra, e riprende a frantumarla, così all’infinito. Certo, quelle schegge possono servire come rudimentali armi, la fionda di Davide contro Golia, a me pare invece che il messaggio sia inequivocabile, inutile sfogare la rabbia con gesti fine a sé stessi, il rancore va incanalato nel verso giusto. Mi sovviene una sequenza da Le 100 giornate di Sodoma (Pasolini, 1975), dove un giovane a petto nudo alza il pugno chiuso davanti a due squadristi che lo fucilano all’istante, fuor di metafora, il gesto non serve a niente, come pisciare contro i muri o bruciare copertoni.

Pushing the limits è l’ennesima riprova che siamo di fronte ad una impalpabilità anestetica, nessuna concessione ai sensi, all’aisthesis direbbe Renato Barilli, ciò non toglie nulla a questa valida operazione di smascheramento politico, mettendo in atto tutti quegli accorgimenti per controbattere la normalizzazione e, se vogliamo dirla tutta, l’azzeramento delle anomalie sociali. E non è detto che anche attraverso questi scontri artistici si possa giungere alla bellezza, per tornare a Rimbaud l’augurio che ci torna in mente è “oggi so salutare la bellezza”.

 

DebatikCenter of Contemporary Art, PUSHING THE LIMITS, a cura di Fabiola Naldi, Underground Movement, Armando Lulaj, Pleurad Xhafa, la Société Spectrale, Manifesto Collective, Galleria de’Foscherari, Bologna, 17 ottobre 2025-18 gennaio 2026.

 

 

 

10 novembre 2025

L’idea della Poesia sonora

 

Mi sono già occupato in un precedente blog di questo volume, in occasione della nuova uscita in traduzione inglese, credo sia opportuno aggiungere alcune altre considerazioni. La prima riguarda la stessa Brenda che si è inserita brillantemente in un drappello di sperimentatrici sonore che sta diventando sempre più scarno penso a Fátima Miranda, a Michèle Metail, a Katalin Ladik, e che necessita di nuova linfa che lei come la svedese Cia Rinne, altra giovane leva apparsa di recente, è certamente in grado di fornire.

La Poesia Sonora brasiliana ma non solo, si muove tra due estremi. Da una parte il tratto ludico al quale Johan Huizinga, è noto, conferisce il ruolo di propulsore primo di ogni attività umana ivi compresa quella creativa, dall’altro una sofisticazione tecnologica dove il suono non viene più impiegato come esso è in natura ma alterato e messo in frizione con scenari massmedializzati di diversa provenienza. Quest’ultima affermazione potrebbe costituire un metodo di lavoro fondato su una altrettanto famosa intuizione di McLuhan (il quale la riferiva alla fotografia), ovvero che «la tecnologia è una estensione della nostra persona» ad indicare che non era un surplus né un succedaneo ma la vera essenza del nostro essere. Tra questi due poli al centro in bella vista, oltre allo sviluppo vocorale che non necessariamente implica una rottura asemantica anzi esso propone una totale rivitalizzazione della lingua, faceva capolino la musica. Già più volte ho scritto che nella performance di Poesia Sonora e in Polipoesia più che di musica si debba parlare di non-musica per distinguerla dalla canzone, dal lied, dal melologo o dall’opera lirica.

Come tutti questi elementi si fondono insieme o possono fondersi insieme? Giustamente Brenda pone a sottotitolo del suo studio storia e sviluppi di una avanguardia poetica. Se si tratta di una avanguardia e non c’è dubbio che si tratti di una avanguardia, i rapporti vanno di volta in volta inventati e sperimentati, saggiati perché non sono pre-esistenti. Inoltre, a priori deve sempre esistere, questo sì è dirimente, una teoria in base alla quale prendere le giuste e coerenti decisioni.

Pertanto in virtù di presupposti teorici la pratica intermedia (leggi D. Higgins) ma anche quella ipermedia (leggi P. Menezes), piste legittime ed articolate, alla fin dei conti si appoggiano sul concetto di fusione paritetica dove gli tutti gli elementi costitutivi vengono miscelati in un cocktail diluendo i loro connotati, come il belga Paul De Vree aveva già teorizzato sin dalla metà degli anni Settanta. L’assetto della Polipoesia, invece, tiene in considerazione un rapporto verticale e non orizzontale, dove la voce, leggesi sperimentazione vocorale, assume la guida, il ruolo necessariamente più appariscente relegando in ombra tutti gli altri ingredienti. Ecco perché più su a proposito di musica, mi si perdoni il bisticcio, insistevo sul termine non-musica. Come ho scritto nella prefazione al volume che sto commentando, “la Poesia Sonora non risulta molto distante dall’arte concettuale secondo la quale una cosa non è arte ma l’idea espressa dalla stessa cosa può esserlo”.

 

Brenda Mar(que)s Pena, SOUND POETRY, History and Developments of a Poetic Vanguard, Dialética Editora, São Paulo (Brasile), 2025.

 

3 ottobre 2025

Pascal cum Bernhard e viceversa

 

Se il pittore Strauch, personaggio chiave di Gelo, tiene sempre a portata di mano i Pensieri di Blaise Pascal, anzi, spesso lungo lo scorrere delle pagine si rassicura di avere il libretto in tasca, vuol dire che quel volume assume netta rilevanza non solo nel solco di quel romanzo, chiamiamolo così per convenzione, ma anche nella tecnica di scrittura di tale testo. È l’unico libro che cita, l’altro autore menzionato in tutto l’intero volume è Henry James, senza specificare quale titolo l’io narratore (Bernhard stesso) stesse leggendo.

Tralascio volutamente come le tematiche pascaliane trovino ampio spazio in Gelo, mi limito solo a dire che entrambi, come esseri umani, hanno avuto una vita sofferta, disgraziata, tutti e due quasi malati cronici, una vita dove la disperazione prevaleva sempre sulla gioia di vivere. Oltre ai malanni fisici, condividevano un’innata propensione per la solitudine e un connaturato rigetto per ciò che li circondava. Mentre Pascal ha sublimato la misoginia nell’afflato mistico, fatale fu l’attrazione giansenista di Port-Royal, Bernhard s’è mantenuto coerente sia nella produzione scritta dove non compaiono donne se non brutte, che nella vita. Attratto dalle donne se non attraverso l’assenza di bellezza e sensualità, forse per questo la donna della sua vita fu quell’Hedwig Stavianicek, di trentasette anni più anziana di lui, la “zia” così l’aveva apostrofata, in realtà la signora della buona società viennese gli ha fatto da madre, che non ha mai avuto in quanto venne subito abbandonato dai nonni materni, da compagna sostenendolo in tutte le sue battaglie, contribuendo non poco alla sua affermazione di scrittore, non solo in suolo nazionale, e, da ultimo, anche da amante. Quest’ultima affermazione non riscontrabile tra le carte della critica specializzata m’è venuta spontanea guardando a lungo certe immagini di loro due, facilmente reperibili in rete. “L’arte non può colmare il vuoto lasciato dall’unica donna amata”, è l’unico accenno che può essere riconducibile alla situazione da lui vissuta quando Hedwig venne improvvisamente a mancare.

Lo stile di scrittura di Berhard, già ampiamente sviscerato dai dotti esperti e dai quali mi tengo a debita distanza, ha una stretta, strettissima liaison con il pensiero n.23 di Pascal che recita, “quando in un discorso

si trovan parole ripetute, e tentando di correggerle, esse appaiono così appropriate che a sostituirle lo si guasterebbe [il discorso], bisogna lasciarle stare; quello è il segno [che è impossibile sostituirle]; anche se ciò dia esca all’invidia, che è cieca, e non sa che in quei casi la ripetizione non è un errore: giacché non c’è nessuna regola in generale”.

E ancora più sotto, “le parole diversamente disposte fanno un senso diverso”, fino alla seguente finezza “lo stesso concetto cambia significato secondo le parole che lo esprimono” (Pascal scrive i suoi pensieri in realtà frammenti, negli anni antecedenti la morte che avviene nel 1662). In questi brevi passi trascritti il metodo bernhardiano trova la sua ragione d’essere esibendo quella scrittura a scatti, infiorettata di avanti e indietro sulla stessa frase, di continue riprese, iterazioni ad libitum, disseminate in un soliloquio apparentemente trasandato per non dire colloquiale, senza però mai smarrire l’affilata punta di diamante della profondità sia essa esistenziale che filosofica. Gli epigoni facilmente imitano come scrive, non quanto riesce a comunicare.

Infine, il pensiero n.403 che Pascal indirizza all’interlocutore, nel nostro caso sinonimo di chi legge, “se esso si esalta, lo deprimo; se si abbassa, lo esalto e sempre lo contraddico, finché non comprenda che è un mostro incomprensibile”, fotografa il procedimento dialettico di Bernhard, che non concede tregua al lettore togliendogli punti di riferimento, con un rovesciamento dal pro al contro, in maniera tale che non si fissi troppo nelle sue convinzioni, come avviene in quell’assurdo dialogo di Gelo, dove le domande sono anche le risposte: “Quello lì è molto vecchio, non è vero?”, “Sì quello lì è molto vecchio”, “Come si sta in canonica? Fa molto freddo?”, “Sì, molto freddo, proprio freddo”, “Che c’è di nuovo in città? Molta gente, vero?”, “Sì molta gente”, “E come sarà il tempo domani? Si può sperare?”, “Sperare, sì,”.

La sintonia tra Pascal e Bernhard viene ulteriormente rafforzata da una frase che torna spesso come un memento mori, “Ovunque ci si scontra solo con l’incomprensibile”.

 

Blaise Pascal, Pensieri, Torino, Einaudi, 1962.

Thomas Bernhard, Gelo, Milano, Adelphi, 2024.

 

8 settembre 2025

S’Aatie vive nell’Acquaviva

 

 Aatie, chissà se suddetto titolo volutamente o no richiami Satie, direi di sì se si prende Satie come riferimento di un alto tasso di sperimentazione, come accanita e testarda affermazione di un’assoluta libertà creativa che consente all’artista-musicista qualsiasi cosa. Salta all’occhio tuttavia la scritta del DVD con la parola Aatie sdoppiata e girata all’incontrario dove il carattere scelto per la a assomiglia tremendamente ad una s.

Aatie ha debuttato (un estratto di 7 minuti) alla Fenice di Venezia il 14 maggio del 2011, mentre nella sua totalità è andato in scena al Conservatorio di Parigi il 15 febbraio del 2012. Riascoltandolo a distanza di oltre un decennio, conserva intatto tutto il suo potere d’impatto elettroacustico, con soluzioni innovative rispetto alla tradizione di questa ricerca che annovera nomi indelebili come Berio, Stockhausen o Xenakis. Dove stanno le novità? Anzitutto il rapporto tra un parlato quotidiano esibito in un francese colloquiale, a volte un inglese fortemente francesizzato e financo uno spagnolo sudamericano elevato a degno interlocutore di un canto, appena accennato, mai completamente sviluppato ma sempre ben presente come indispensabile filo conduttore. La bellissima voce del mezzo soprano Loré Lixenberg campeggia in primo piano e cuce tutte le varie fasi con gorgheggi, trilli e funambolismi elettronici cementando con una solida omogeneità l’intera opera. Quindi elevare la banale parlata d’ogni giorno al ruolo di deuteragonista significa portare aria fresca dentro una stanza dove la sequenza delle note sia musicali che cantate non basta più come riserva d’ossigeno. Anche la strumentazione adottata a netta maggioranza di fiati favorisce il trionfo della voce sia essa cantata o parlata. Mentre in certe opere del passato il modello era estremamente rigido pena anche una certa incomprensibilità se non proprio urticante cacofonia, qui il Nostro riesce perfettamente a far dialogare in piena e ammirevole armonia il catalogo degli accorgimenti elettronici con brandelli di bel canto e soprattutto con la lingua comune. Ne deriva un effetto d’insieme che è al contempo un rigetto dell’horror vacui sonoro ed un inno al dettaglio, al particolare che resta sempre molto comprensibile nell’equilibrio generale degli elementi coinvolti. Come un consumato direttore d’orchestra, centellina ingressi e uscite nell’opéra-monde perché tutto può farvi parte con la necessaria grazia. In virtù di una seducente eufonia Aatie non sfigura come erede della grande tradizione elettroacustica nata e sviluppata nella seconda metà del secolo scorso, penso più a Pierre Henry che a Pierre Schaeffer. L’autore ricorda che “what is the market? the market is what people prefer!” (“cosa è il mercato? è ciò che la gente vuole!”) forse questa è la triste realtà con la quale ci tocca confrontarci ogni giorno e forse anche per questo, sotto finale, s’intensificano urla, urletti di rabbia o disperazione.

Infine, vorrei riprendere dalla sua ampia produzione passata Le Disque (2009-10) che non pare per nulla invecchiato, quando si lavora sui grandi universali temi in questo caso il corpo umano e sulle possibili reazioni che ha durante una forzata assenza dal consorzio umano e soprattutto dalla luce, si centra un obiettivo che è destinato a durare. L’opera si snocciola attraverso lacerti fonetici, spezzoni musicali, accenni rumorici che ben rendono il clima claustrofobico diluito in appropriate pause cagiane che le evidenziano al massimo grado. Ne risulta un ascolto nervoso che costringe i nostri sensi ad essere parte attiva sorpresi e attirati da quanto sta per succedere, l’imprevedibilità come cifra estetica e valore creativo.

 

Frédéric Acquaviva, Aatie (opéra-monde), for mezzo-soprano, voices, instrumental ensemble, electronics and videos, Casus Belli, 2012. CD-DVD

Frédéric Acquaviva, Le Disque, 320’ pour voix, clavecin, et électronique, Milan, Casus Belli, 2010.  8 CD

 

25 giugno 2025

S’Aatie live into Acquaviva

 

Aatie, who knows if the aforementioned title intentionally or not recalls Satie, I would say yes if one takes Satie as a reference of a high rate of experimentation, as a fierce and stubborn affirmation of an absolute creative freedom that allows the artist-musician anything. However, the writing on the DVD credits catches the eye with the word Aatie doubled and turned backwards where the character chosen for the a looks terribly like an s.

Aatie debuted (a 7-minute excerpt) at the Fenice in Venice on May 14, 2011, while in its entirety it was performed at the Paris Conservatory on February 15, 2012. Listening to it again after more than a decade, it retains all its power of electroacoustic impact thanks to innovative solutions compared to the tradition of this research that includes indelible names such as Berio, Stockhausen or Xenakis. Where are the novelties? First of all, the relationship between an everyday speech exhibited in colloquial French, sometimes a strongly Frenchified English and even a South American Spanish elevated to a worthy interlocutor of a chant, barely hinted at, never fully developed but always present as an indispensable thread. The beautiful voice of mezzo soprano Loré Lixenberg stands out in the foreground and sews together all the various phases with warbling, trills and electronic tightrope walking, cementing the entire work with a solid homogeneity. So elevating the banal everyday speech to the role of deuteragonist means bringing fresh air into a room where the sequence of notes, both musical and sung, is no longer sufficient as an oxygen reserve. Even the instrumentation adopted with a clear majority of wind instruments favors the triumph of the voice, whether sung or spoken. While in certain works of the past the model was extremely rigid, even at the risk of a certain incomprehensibility if not downright stinging cacophony, here our man perfectly succeeds in making the catalogue of electronic devices dialogue in full and admirable harmony with shreds of bel canto and above all with the common language. The result is an overall effect that is at the same time a rejection of the sound horror vacui and a hymn to the detail, to the particular that always remains very comprehensible in the general balance of the elements involved. Like a seasoned conductor, he rations entrances and exits in the opéra-monde because everything can be part of it with the necessary grace. By virtue of a seductive euphony Aatie does not look out of place as the heir of the great electroacoustic tradition born and developed in the second half of the last century, I think more of Pierre Henry than of Pierre Schaeffer. The author reminds us that “what is the market? the market is what people prefer!” perhaps this is the sad reality we have to deal with every day and perhaps also for this reason, under the finale, the screams, shrieks of anger or desperation do intensify.

Finally, I would like to resume from his vast past production Le Disque (2009-10) which does not seem to have aged at all, when one works about the great universal themes in this case the human body and his possible reactions it has during a forced absence from the human consortium and especially from light, you hit a target that is destined to last. The work unfolds through phonetic fragments, musical pieces, noisy hints that well render the claustrophobic climate diluted in appropriate cagian pauses that highlight them to the maximum degree. The result is a nervous listening that forces our senses to be an active part surprised and attracted by what is about to happen, unpredictability as an aesthetic figure and creative value.

 

Frédéric Acquaviva, Aatie (opéra-monde), for mezzo-soprano, voices, instrumental ensemble, electronics and videos, Casus Belli, 2012. CD-DVD

Frédéric Acquaviva, Le Disque, 320’ pour voix, clavecin, et électronique, Milan, Casus Belli, 2010. 8 CD

 

June 25th 2025

Per farla finita….e la storia ricomincia

 

 

Dopo Schwitters era prevedibile che Jaap (Blonk) affrontasse un altro mostro sacro come Artaud. Mentre la Ursonate con il suo carico di rarefazioni e riduzioni favoriva l’esplosione fonetica, l’opera di Artaud (Per farla finita con il giudizio di Dio, 1947), pur ricorrendo a tutto spiano alla strumentazione della cosiddetta poesia sonora (urla, i tipici click buccali, onomatopee, glossolalia se non la vera distruzione della parola stessa attraverso una pronuncia schiacciata fino appunto alla distorsione) resta essenzialmente un‘opera teatrale dove all’autore interessava comunicare tematiche antireligiose (sin dal titolo), antiamericane, violare i tabù innalzando vessilli scatologici. Infatti venne subito censurata e proibita la sua divulgazione pubblica alla radio francese (febbraio 1948) che l’aveva commissionata.

Se “everything must be arranged in a fulminating order” (“ogni cosa deve essere organizzata in un ordine fulminante”), inutile addentrarsi in inefficaci moduli di riscrittura, meglio riprendere, come di fatto avviene, la stessa struttura artaudiana perché lo scopo principe è far giungere il messaggio, trasgressivo fin che si vuole, a chi ascolta. Quindi ascoltando To Have Done fa un certo effetto sentire il testo letto in inglese, perché di vera lettura si tratta se si vuole davvero veicolare il potere trasgressivo del lessico. In questo senso non solo è un reading classico, doppiamente classico perché si ritorna agli albori della letteratura quando le opere lungi dallo sbrodolare i personalismi caratteriali dei singoli autori, oggettivamente esibivano dei dati su cui ragionare e dibattere, concetti non riferiti a manie ossessive dell’ego dello scrittore, ma riflessioni, nozioni e argomentazioni.

Jaap sceglie pertanto di rispettare il testo anche se è consapevole che “I am saying something bizarre” (“Sto dicendo qualcosa di strano”), al punto che le circonvoluzioni irresistibili frutto della sua potenza polmonare vengono saggiamente circoscritte se non contratte e centellinate, e fungono da armonico contrappunto allo scorrere delle frasi. Chi ascolta questo CD non si aspetti di trovare il solito Jaap cui è abituato da decenni, il Nostro sta interpretando o meglio leggendo Artaud, però qualche traccia del suo sfrenato sperimentalismo tuttavia affiora soprattutto negli Interludes, nel finale di Black Sun e sicuramente in Raise the question, il brano più complesso dell’intero CD, dove riesce a far confluire le acrobazie vocaliche dentro al significato totalmente ribelle.

Abile come sempre a sfruttare la vecchia tecnica del multiplay o dello sdoppiamento su più piste, ha deciso di mantenere una parvenza di sottofondo musicale che in Artaud era frutto di vere cacofonie prodotto allo xilofono e intercalate da percussioni, qui, invece, assume un aspetto da colonna sonora, creando una ambientazione da suspense o thriller che ben si adatta all’atmosfera generale (con le eccezioni rumoriche già segnalate negli Interludes). In entrambi i casi, siamo di fronte come spesso vengo ripetendo da tempo, ad una non-musica che evidenzia in modo dirompente la forza buccale del fiato (“le parole sono respiro” ricordava Byron).

 

Antonin Artaud by Jaap Blonk To Have Done with the Judgment of God, Arnhem, Kontrans Records, 2020.

 

 23 giugno 2025

To have done…and the story begins again

 

 After Schwitters, it was predictable that Jaap (Blonk) would tackle another sacred monster like Artaud. While the Ursonate with its load of rarefactions and reductions favored the phonetic explosion, Artaud’s work (To have done with the Judgement of God, 1947), despite resorting fully to the instrumentation of so-called sound poetry (screams, the typical buccal clicks, onomatopoeia, glossolalia if not the real destruction of the word itself through a pronunciation compressed to the point of distortion) remains essentially a theatrical work where the author was interested in communicating anti-religious (starting from the title), anti-American themes, violating taboos by raising scatological banners. In fact, its public broadcasting on the French radio (February 1948), which had commissioned it, was immediately censored and prohibited.

If “everything must be arranged in a fulminating order”, there is no point in delving into ineffective rewriting modules, it is better to resume, as in fact it happens, the same Artaudian structure because the main purpose is to transmit the message, transgressive as you want, across to the listener. So listening to To Have Done has a certain effect on hearing the text read in English, because it is a real reading if you really want to convey the transgressive power of the lexicon. In this sense it is not only a classic reading, doubly classic because it goes back to the dawn of literature when the works, far from spinning out the character personalities of the individual authors, objectively exhibited data on which to reason and debate, concepts not related to obsessive manias of the writer’s ego, but reflections, notions and arguments.

Jaap therefore chooses to respect the text even if he is aware that “I am saying something bizarre”, to the point that the irresistible convolutions resulting from his lung power are wisely circumscribed if not contracted and rationed, and they act as a harmonic counterpoint to the flow of the sentences. Those who listen to this CD should not expect to find the usual Jaap they have been used to for decades, our man is interpreting or rather reading Artaud, however some traces of his unbridled experimentalism nevertheless emerge especially in the Interludes, in the finale of Black Sun and certainly in Raise the question, the most complex piece of the entire CD, where he manages to make the vocal acrobatics flow into the totally rebellious meaning.

Skilled as ever in exploiting the old technique of multiplay or splitting on multiple tracks, he decided to maintain a semblance of background music that in Artaud was the result of real cacophonies produced on the xylophone and interspersed with percussion, here, instead, it takes on the aspect of a soundtrack, creating a suspenseful or thriller setting that adapts well to the general atmosphere (with the noisy exceptions already noted in the Interludes). In both cases, we are faced with, as I have often been repeating for decades, a non-music that emphasizes in a disruptive way the oral force of the breath (“words are breath” Byron recalled).

 

Antonin Artaud by Jaap Blonk To Have Done with the Judgment of God, Arnhem, Kontrans Records, 2020.

 

June 23rd 2025

Talete e la videopoesia

 

 

La servetta di Tracia, carina e graziosa secondo Platone, sbeffeggia Talete che a forza di guardare il cielo, cade nel pozzo, che poi è una pozzanghera. Platone ricorda la storiella citando Socrate che definisce il vero filosofo come colui che indaga «le cose che sono» ossia le idee, tralasciando «le cose che gli stanno appresso».

Mi son ricordato del malcapitato Talete quando Sarah Tremlett (introducendo il saggio di Marc Zegans su una videopoesia di Rich Ferguson) suggerisce di utilizzare lo schermo video-poetico come una spazio filosofico. Di certo è una primizia perché avendo attraversato quasi cinquant’anni di videopoesia, non mi era mai capitato di sentire con tanta forza e determinazione il richiamo alla filosofia. Credo che nel caso di Sarah, però, l’aneddoto platonico vada decisamente capovolto, intendo dire che non è tanto interessata alle idee, quanto alle cose «che gli stanno appresso», cose reali, precise realtà e non propositi fumogeni o virtuosismi elettronici. Per restare dentro alla metafora di Talete, indagare la pozzanghera, ciò che gli sta sotto i piedi e non le fanfaluche che gli passano per la testa. Lei stessa ribadisce «we need to hear Real Voices and see Real Values at work and connective aesthetics whatever scheme Trump trumps up». L’affermazione è perentoria, mi fa venire in mente la dittatura del fatto elaborata a suo tempo da Dziga Vertov, « necessitiamo di voci autentiche, valori reali e un’estetica connettiva qualsiasi trappola Trump inventi » [impossibile tradurre il gioco di parole sul cognome del presidente degli Stati Uniti]. Ritengo che controbattere tutto l’armamentario tecnologico in atto oggi ricorrendo allo strumento artistico sia tempo sprecato, la lotta di Davide contro Golia. Ciò che si può fare, nel nostro particulare, è sviluppare quello che Sarah sintetizza con l’incisivo schema connective aesthetics.

E qui compare la mia Polipoesia che sin dagli anni Ottanta ha cercato di amalgamare tutti gli elementi (ivi compreso il video) della performance live, creando un rapporto funzionale al fine del trionfo della vocalità o oralità, a seconda dei casi.

Pertanto Marc Zegans ha ragione quando scrive nell’ottimo saggio (vedi link sottostante) che la videopoesia, generalmente parlando, non appartiene allo specifico polipoetico, però va anche aggiunto che Rich Ferguson compie una vera performance nel video suddetto, esibendo tutti gli elementi dello spettacolo, musica, immagini, abiti, oggetti, movimenti e naturalmente la voce. Quindi in sintesi direi che è un’opera polipoetica anche se va ascritta al settore dell’oralità, perché assistiamo ad un perfetto esempio di spoken word o reading secondo lo stile Beat.

L’ultima questione da affrontare, last but not least, sarebbe quella dei contenuti senza i quali non si realizza quell’estetica connettiva di cui si è fatto cenno. Temi da controinformazione? Affrontare il non detto dai media, oppure trattare il quotidiano elevandolo al suo grado massimo di assoluto? La partita è ancora aperta e tutta da giocare, vorrei solo ricordare che il più grande rivoluzionario del secolo passato, Che Guevara, nelle sue poesie parlava soprattutto di amore.

 

https://liberatedwords.com/2025/05/16/on-the-cutting-edge-4-what-was-said-at-the-reunion-of-deathbed-images-marc-zegans-on-rich-ferguson/

 

Sarah Tremlett ON THE CUTTING EDGE: 4 – What was Said at the Reunion of Deathbed Images – Marc Zegans on Rich Ferguson

 

 

22 maggio 2025

Thales and videopoetry

 

 

The Thracian maid, cute and gracious according to Plato, mocks Thales who, by dint of looking at the sky, falls into the well, which is actually a puddle. Plato recalls the story by quoting Socrates who defines the true philosopher as someone who investigates «the things that are» or ideas, leaving aside «the things that are close to them». I remembered the unfortunate Thales when Sarah Tremlett (introducing Marc Zegans’ essay on a videopoem by Rich Ferguson) talks about using the video-poetic screen as a philosophical space. It is certainly a novelty because having gone through almost fifty years of video poetry, I had never felt the call to philosophy with such force and determination. I believe that in Sarah’s case, however, the Platonic anecdote needs to be turned on its head. I mean, she is not so much interested in ideas as in the things «that are close to her», real things, precise realities and not vague intentions or electronic virtuosity. To stay within the metaphor of Thales, investigating the puddle, what is under his feet and not the nonsense that passes through his head. She herself reiterates «we need to hear Real Voices and see Real Values at work and connective aesthetics whatever scheme Trump trumps up». It reminds me of the dictatorship of the fact developed in his time by Dziga Vertov. I believe that countering all the technological arsenal in place today by resorting to the artistic tool is a waste of time, the fight of David against Goliath. What we can do, in our particulare, is to develop what Sarah summarizes with the incisive scheme connective aesthetics.

And here appears my Polypoetry which since the 1980s has been trying to combine all the elements (including video) of live performance, creating a functional relationship aimed at the triumph of vocality or orality, depending on the case.

Therefore Marc Zegans is right when he writes in the excellent essay (see link below) that videopoetry, generally speaking, does not belong to the specific polypoetic one, but it should also be added that Rich Ferguson carries out a real performance in the aforementioned video, exhibiting all the elements of the show, music, images, clothes, objects, movements and of course the voice. So in short I would say that it is a polypoetic work even if it should be ascribed to the orality area, because we are witnessing a perfect example of spoken word or reading according to the Beat style.

The last issue to be addressed, last but not least, would be that of the contents without which the connective aesthetics mentioned cannot be achieved. Counter-information themes? Developing what is not said by the media, or treating the everyday by elevating it to its maximum degree of absolute? The game is still open and all to play, I would just like to remember that the greatest revolutionary of the past century, Che Guevara, spoke above all of love in his poems.

 

https://liberatedwords.com/2025/05/16/on-the-cutting-edge-4-what-was-said-at-the-reunion-of-deathbed-images-marc-zegans-on-rich-ferguson/

 

Sarah Tremlett ON THE CUTTING EDGE: 4 – What was Said at the Reunion of Deathbed Images – Marc Zegans on Rich Ferguson

 

 

May 22nd 2025