Il Blog di Enzo Minarelli

Un robot umano

 

Torno ad occuparmi di Frédéric Acquaviva dopo averlo fatto per l’allargamento dell’archivio multimediale La Voce Regina https://www.lavoceregina.it/la-voce-regina-1/poesia-sonora-polipoesia/profile-profiles-b69013 poco tempo fa.

Questa volta ho analizzato un corpus ancor più ampio a dimostrazione di un artista prolifico come un vulcano in continua eruzione. Cominciamo con i tre CD di Lore Ipsum (2015) per voci ed elettronica, affascinante esempio di ricerca sperimentale, il gorgheggio rarefatto e flessuoso della mezzo soprano Loré Lixenberg supera per varietà ed inventiva le armonie oramai storicizzate e consolidate del duo Berio-Berberian, in virtù di un impianto elettronico che galvanizza il prodotto rendendolo appetibile sia per i cultori di un bruitisme acustico che per gli amanti del bel canto.

In [seminal], for speakerine (Orlan), voci, orchestra ed elettronica, siamo messi di fronte alle malafatte della società dei consumi. Il rumore prodotto dalle nostre beneamate città è cresciuto esponenzialmente nell’ultimo secolo, basta verificare il vertiginoso aumento dei decibel che hanno dovuto adottare le sirene delle ambulanze o le auto della polizia per farsi udire in mezzo al caotico traffico dei nostri centri superaffollati. Il progetto, veramente ambizioso, contempla, come scritto, la voce di Orlan in veste narrante di una serie ineluttabile di eventi cosmici che portano alla distruzione di tutto l’universo, nel contempo conta la incredibile capacità di Frédéric di miscelare, coniugare, congiungere, confluire oltre un centinaio di artisti-musicisti che hanno collaborato con una semplice nota. Una sensazione soffocante di incipiente catastrofe incombe su questo lungo brano, la voce di Orlan per quanto bassa e rassicurante aggiunge ancor più pathos alla già evidente tragedia. L’idea di far dialogare la voce con quanto viene sfornato dalla pancia urbana di Parigi e Londra assomiglia molto alla lotta tra un Davide e Golia, o se preferite tra un titano e un bambino. Qui, come nelle buone favole, il debole vince, infatti alla fine il vociferare parole poetiche finisce per avere la meglio su un panorama rumorico teso all’annientamento totale. Frédéric capovolge l’operazione già tentata da Cage con il treno (Bologna- Porretta 1978) dove la musicalità era data dall’ambiente ferroviario opportunamente amplificato.

In [seminal], emerge una certa dolcezza vocale, raramente la parlata quotidiana, a forza di trilli, note acute, cinguettii e vocalizzi il Nostro doma il contesto acustico trasformando la sgarbata e violenta cacofonia in inaspettata eufonia.

Mentre i precedenti lavori appena commentati potevano essere rubricati sotto l’etichetta della musica concreta, questo No soy un robot è un vero brano di poesia a tutto tondo, nel senso che sfrutta la voce come uno strumento poetico. La lingua scelta, quella messicana, in occasione di una residenza dell’autore a Monterrey, viene trattata secondo la tecnica del cut up, quindi tagliata, affettata mettendo in evidenza il lacerto linguistico che per contrasto diviene ancor più protagonista. Infatti udire lungo i trenta minuti del pezzo, brandelli del tipo “Aún así, interesante… The femenicidio machine… Stress… Sin escandolo… La violencia contra las mujeres… Y para estar en la tortura de una agente de la DEA…”, diluiti tra le ampie sessioni composte di una musicalità da suspense e comunque per niente invadente per sottolineare al massimo grado il significato delle parole, significa imprimerli bene nella memoria. Si avvertono all’orecchio chiari accorgimenti tecnologici come il cambio di velocità, oppure calibrate intromissioni da opera lirica, una serie di clicks se non gargarismi e scoppi d’ira fonica che creano un’aura non distante dalla poesia sonora. Alla fine No soy un robot dimostra che non solo è ancora possibile sperimentare ma soprattutto disporre del gran materiale elettroacustico ed informatico in funzione ideologica ed attingere ai grandi valori dell’anima umana perché non siamo robot, non siamo diventati robot né mai saremo robot.

 

Frédéric Acquaviva, Lore Ipsum, for voice(s) and dead electronics, with Loré Lixenberg, Berlin, ß@£, 2015.

Frédéric Acquaviva, [seminal], 2020-21, London, £@ ß, 2022.

Frédéric Acquaviva, No soy un robot, London, La plaque tournante, 2023.

(Distribution: les presses du réel)

 

 25 maggio 2024

Una lusitana ventata di sana sonorità

 

Ho conosciuto Américo nel lontano dicembre del 1999, in occasione del Festival di Poesia Sonora Correntes de Ar, presso l’Auditório do Paço da Cultura a Guarda, una bellissima città tra i monti settentrionali del Portogallo, lui ne era il direttore artistico e devo dire per inciso che ha, istituzionalmente parlando, sempre occupato posizioni di potere come quella attuale di Direttore delle Arti. Invece quella volta scoprii che era anche un valido ed eccellente poeta sonoro, dotato di una voce formidabile tale da competere con Demetrio Stratos o Fatima Miranda. Infatti, introducendo un suo CD (O Despertar do Funâmbulo, 2000) notavo come mi avesse impressionato l’approccio vocale sfruttando in maniera accorta e molto equilibrata la potenza polmonare verso un rumorismo significante, per usare una definizione di mio conio. L’abilità del funambolo che rischia di cadere ma non cade ed arriva alla meta. In questo superamento del linguaggio sfiorava l’ultralettrismo, soprattutto quando si concentrava sulla trasgressione del grido. Non basta però essere dotati di un’ugola fuori dal comune per fare della buona poesia sonora, occorre sempre agire dentro un contesto progettuale dove ogni gesto, ogni soffio, ogni respiro occupi il proprio ruolo adeguato sia come tratto estetico che tecnico, ed è questa abilità che gli va riconosciuta attraverso tutta la sua carriera lunga almeno un trentennio.

Poi mi sono occupato del suo lavoro di nuovo quando ho allestito presso la Biblioteca Sala Borsa e alcune Università di Bologna, l’Archivio La Voce Regina, si veda la nota che scrissi nell’estate del 2005, https://www.lavoceregina.it/la-voce-regina-1/poesia-sonora-polipoesia/americo-rodrigues (anche in Enzo Minarelli, La Voce Regina, Lecce, Manni, 2006). Accanto alla rarefazione vocale di marca Zaum, aveva introdotto l’analisi sulla parola in sé applicandovi schemi precisi di penetrazione al suo interno, quella che viene definita almeno da Starobinski in avanti come la ricerca intraverbale e nel contempo di allargamento della stessa, ritenuta evidentemente incapace di comunicare qualcosa di nuovo nel suo assetto comune. Questo lo si evince chiaramente da due CD usciti a quasi dieci anni di distanza, Cicatrizando, (dicembre del 2009) dove vengono registrate azioni in vari luoghi pubblici e privati di Guarda dando largo spazio alla parlata quotidiana, e Parlátorio (2018) che sviluppa un avvincente dialogo tra le confessioni amaramente tristi di chi sopporta il carcere e la voce del poeta che per contrasto spazia libera nell’aria.

Anche nel CD appena uscito che sin dal titolo fa leva sulla seducente paronomasia tra Fala (parla) e Falha (fallimento) emergono forti dubbi sul lingua tradizionale come veicolo di trasmissione. Si dice spesso anche nei dialoghi più accesi «sono solo parole» dimenticando che una parola può uccidere o far vivere e infatti si tratta di corpi contundenti in grado di colpire direttamente al cuore.

Tuttavia il Nostro qui realizza un’opera di poesia sonora in piena regola passando in rassegna tutte, e sottolineo davvero tutte le piste praticate da questa disciplina in oltre cent’anni dalla sua nascita, ricordo il noto «verso senza parole» di Hugo Ball del 1916. Già in un brano come Que te que te si trova riassunta la quintessenza del suo procedimento; qui la fa da padrona una sorta di balbuzie incipiente che gli consente di calcare su un tempo sospeso di incertezza fintanto che l’esplosione fonica deflagra nel nulla. Lo strumento voce come l’elettronica è sempre molto controllato, non gli sfugge alcuna sbavatura tecnologica, ricorrendo all’energia dirompente dell’ugola solo laddove è necessario, soprattutto non mescola sperimentazione vocorale con il canto, mantenendoli intelligentemente separati. Per esempio in un altro CD, Aorta tocante (2005) si confronta con la musica ma alla fine si può ammettere si tratti più di canzoni che di poemi. In Contratempo al di là dell’intraverbalismo condito da insistenti allitterazioni stupisce l’ascoltatore l’effetto eufonico, eppure non disdegna una aperta e provocante cacofonia in Atraczug (non poteva essere altrimenti essendo il pezzo dedicato ad Isidore Isou). Mentre il fondatore del Lettrismo agiva sotto l’impronta istintiva, qui l’impressione è, come già detto, che ci sia una regia attenta, per esempio in Terror la coppia contrastiva tra «morto-porto» finisce inesorabilmente per essere travolta dall’onda urlante, come in A morte é uma, il tono scelto non può essere altro che il sussurro bisbigliato. Emblematico O significante e o significado perché la coppia saussuriana viene affrontata attraverso una lunga sequela di neologismi che denunciano una sfiducia desolante verso il linguaggio stesso, e questa la ragione per cui la Declaraçao finale tra scoppi di rumore mediatico e sbotti fonetici, nonostante il poeta inventi “nuove parole e nuove lingue”, alla fine conta solo il silenzio, anzi è invocato se non urlato come comando assoluto “silenzio!”

 

Amèrico Rodrigues, Acto da Falha, Poesia Sonora, Lisboa, Bosq-íman:os Records, 2024.

 

17 maggio 2024

L’inesauribile potere della vocoralità

 

Concentriamoci dapprima sul rompantes: non è una parola valigia come a prima vista si potrebbe credere, in realtà è uno di quei termini che per tradurli bisogna ricorrere a più lemmi, quindi vale per esplosioni (la più logica) ma anche attacchi personali, scatti d’ira, oppure lampi, comportamenti, giochini. Forse tutti questi multipli significati sottendono l’opera in questione, di fatto Grandes Rompantes sceglie alcuni capolavori della letteratura universale per sottoporli ad una interpretazione secondo il canone assodato della poesia sonora.

Non si tratta, però, di lettura, piuttosto di performance, anche la definizione di reading appare inadeguata.

Alex Hamburger che conosco da quasi trent’anni, sin dai primi miei viaggi a San Paolo del Brasile negli anni Novanta, invitandomi a commentare quest’ultimo suo lavoro accompagna il messaggio con i seguenti (molto significativi) avvertimenti, «esperando que disfrutes de mi esfuerzo para mantener un lenguaje casi extinguido en Brasil». Ha ragione, come più volte ho commentato anche nel recente simposio brasiliano Jornada Internacional de Poesia Visual [Niteroi, Rio de Janeiro] la poesia sonora in Brasile ha stentato e faticato molto a farsi largo, e se c’è qualcosa ancora di poeticamente valido lo si deve in buona sostanza al lavoro di due pionieri quali Philadelpho Menezes e Marcelo Dolabela sviluppato proprio nell’ultima decade del secolo passato.

Questi Grandes Rompantes prodotti a quasi settanta anni dalla nascita della poesia sonora passano in rassegna tutte le tecniche o se preferite le metodologie di questa disciplina e da questo punto di vista nulla di nuovo sotto il sole. Un poema però non si giudica solo dal come viene eseguito ma anche dall’idea che lo sottende e qui il progetto consiste nel considerare il capolavoro scelto come fosse uno schema d’esecuzione per poesia sonora, ed ecco allora il vento sibilante sulla landa è il tema di Cime tempestose, la Divina Commedia viene sintetizzata con una risata continua, forse un po’ riduttiva, il capolavoro dantesco è troppo complesso per essere rappresentato dal semplice ridere, forse il Nostro ha interpretato alla lettera il vocabolo commedia. Il respiro, il rumore di fondo di una conversazione, fino al russare o al soffocamento, causa una cultura asfittica, sono scelte legittime e praticabili non solo come piste fonetiche ma anche come banali e semplici eventi di vita, e sappiamo che spesso le grandi verità si annidano nella banalità e nella semplicità.

Voglio invece soffermarmi su due poemi che mi sembrano quelli più riusciti sia come impatto acustico che concezione estetica. Intanto va chiarito che ogni poema viene contenuto dentro il tempo ragionevole di un minuto e mezzo, questo è un dato molto importante spesso sottovalutato in poesia sonora, il rapporto qualità-tempo deve sempre essere perfetto o quanto meno non deve essere lasciato al caso. Il minutaggio è molto controllato al fine di ottenere l’effetto voluto, a volte bastano dieci secondi in più o in meno per rovinare il prodotto.

Anche i due poemi che mi accingo a commentare durano il giusto, il primo De Romeu e Julieta/From Romeo And Juliet, presenta il Nostro impegnato a pronunciare o storpiare i suddetti due nomi con la bocca sempre più piena zeppa di cibo, al punto da oscurare il senso del declamato. Questa tecnica l’ho già vista ed udita varie volte, per esempio il già citato Philadelpho la adottava riempiendosi la bocca di noccioline mentre tentava di leggere testi letterari di autori ultra-noti oppure la Giulia Niccolai si metteva in bocca palle di carta per annullare una frase quotidiana. Ora, come già detto, al di là del come conta anche il perché di una poesia, e l’idea di accoppiare l’impossibilità dell’amore tra i due innamorati con la difficoltà del pronunciare parole funziona a meraviglia, quest’impasse ci trasmette quanto il linguaggio non serva a superare le angosce o le ansie in amore. L’altro brano che mi ha attirato è De/From Finnegans Wake, dove l’estrema rarefazione joyciana viene resa dal continuo spezzettamento della catena linguistica arricchita o appesantita da neologismi e lacerti sillabali abili nel creare uno stato perenne di illeggibilità-incomprensibilità. Non è proprio lo spirito con cui Joyce aveva concepito quell’opera, il suo obiettivo puntava invece all’allargamento del singolo significato. Vero che l’autore dublinese suggeriva di leggere ad alta voce quel testo, causa anche la sua reale cecità e in questo aggancio vocale, i due lavori si toccano, infatti anche il Nostro deborda in piena vocalità riscattando a pieno il valore del non-sense e del neologismo entrando di diritto in quella zona dove il nulla linguisticamente parlando addiviene tutto.

 

 

Alex Hamburger, Grandes Rompantes, SOUNDCLOUD, 2024.

 

 

11 aprile 2024

Nietzsche precursore

di Hugo Ball e Giovanni Pascoli

 

Fümms bö wö tää zää Uu, per i pochi (o molti che lo ignorano) è l’incipit della storica Ursonate di Schwitters, per l’esattezza il primo verso, anche se verso non è, dell’introduzione a un lungo poema che fa dell’invenzione fonetica e linguistica il suo cavallo di battaglia.

Siffatta titolazione risulta azzeccatissima per questa corposa ricerca curata dal duo Scholz- Engeler (circa 500 pagine con CD allegato) che antologizza scientificamente (quasi) tutti coloro che tra poesia sonora e musica sperimentale lungo tutto il Novecento hanno praticato sistematicamente l’annientamento della lingua intesa come codice a favore di uno zaum, per richiamare alla mente l’efficace definizione dei futuristi russi.

L’atavico desiderio di oltrepassare l’obsoleta, stantia lingua madre per instaurarvene una nuova, avulsa da regole sia sintattiche che lessicali!

Le ragioni di un simile trapianto possono essere molteplici, si va dal rifiuto categorico ed ideologico della lingua comune al piacere di una sperimentazione raffinata, come all’impiego di tecniche particolari, vedi I Ching o la permutazione per rivitalizzare uno strumento ritenuto inadeguato al fine di comunicare quelle novità per le quali si necessita altresì un nuovo linguaggio. Resta da verificare se questi funambolismi fonici vengano poi effettivamente compresi o restino solo dei gradini lungo la scala interlocutoria, talora contraddittoria della storia.

Inizia Nietzsche con un appunto scritto prelevato da un suo taccuino nel settembre del 1885: “Buatschleli batscheli / bim bim bim / Buatschli batschleli / bim!” Divertissement o riflessione profonda che le parole non riescono ad esprimere?

Analizzando più da vicino questa estasi del fonosimbolismo si scoprono due nitidi schemi che sottendono l’atto creativo. Il primo procede attraverso procedimenti non-intenzionali o meglio detto per scatti istintivi non regolati a priori da nessun meccanismo se non minimi spostamenti di lettere, sillabe e toni, il secondo invece lascia trasparire tra le griglie permutanti una metodologia elaborata prima di passare all’azione. Paradossalmente, nonostante opposte procedure, gli esiti si assomigliano, alludo alla loro «difficile decodificazione» e non può essere altrimenti come del resto succede con il parlar strano di Nembrot o con il primo verso giambico proferito da Cassandra nell’Agamennone di Eschilo. Occorre pertanto dismettere i panni dei nostri consolidati ricettori per indossarne altri e tentare il dialogo con questi oggetti solo in apparenza stralunati.

Tristan Tzara nel 1916, lo stesso anno dei «versi senza parole» di Hugo Ball, si preoccupava di distruggere i generi letterari immettendo nei poemi degli elementi di disturbo ritenuti, allora, (anche oggi) indegni d’essere inclusi in una poesia, come frasi di giornale, rumori e suoni (non onomatopee per distinguersi dall’onomalingua di Depero). Come Picasso, Matisse o Derain ricorrevano per i loro quadri a diversi materiali, così Tzara sfrutta il potere della tonalità e del contrasto auditivo per comporre poemi astratti basati su pure sonorità da lui stesso inventate senza alcun riferimento alla realtà. È quanto succede anche nelle poesie di Giovanni Pascoli (Canti di Castelvecchio del 1903) in maniera certamente minore rispetto all’autore dada ma pur significativa trattandosi di pura poesia tradizionale. Tutti gli accorgimenti fono-visivi di cui sto trattando si ritrovano a oltranza anche nel Phantasus di Arno Holz (1925) dove secondo Max Bense si avvera il tripudio dell’entropia testuale e della fantasia razionale.

La scrittura viene surclassata dalla voce che rende giustizia alla progressione orale di tutte queste contorsioni, si ascolti Glasslass di Higgins (luglio 1979) imperniato sulla regressione intraverbale di «glass-bicchiere, lass-ragazza, ass-culo» oppure le matematiche permutazioni I AM THAT I AM (Gysin-Sommerville, 1973), ottenute tramite l’uso di computer fino al Little Richard di « Tutti frutti all rootie, tutti frutti all rootie, awopbopaloobop alopbamboom».

Creare affidandosi al calcolo dell’I Ching significa invece trasferire la propria volontà in mano alle cosiddette chance operations. John Cage le applica al Journal di H.D. Thoreau e il risultato sono quelle irripetibili ed esaustive Empty words (1973-78). Jackson MacLow nei Gathas, 1961, (gatha in sanscrito significa verso o inno) si concentra su alcuni canti del più importante poeta tibetano Milarepa (XII secolo) per sviluppare “bare attention” verso i suoni delle lettere alias fonemi.

La coppia Scholz-Engeler ha compilato un fondamentale vademecum completo di tutti i sussurli possibili per riprendere un titolo di Totino, il fatto che io lo stia commentando dopo vent’anni dalla sua uscita significa che è ancora attualissimo e credo lo sarà per molto tempo ancora.

 

 

Fümms bö wö tää zää Uu, Stimmen und Klänge der Lautpoesie, a cura di Christian Scholz e Urs Engeler, Basilea, Urs Engeler Editor, 2002.

 

 

9 ottobre 2023

Contemporaneous Brand Strategy Document

 

A nessuno verrebbe in mente di porre siffatto titolo per una silloge poetica, eppure dopo averlo letto e riletto, simile titolazione è ampiamente giustificata in quanto risulta un efficace documento sulla strategia di un marchio che io intendo ricondurre alla poesia. Seguendo Virginia Woolf la ricetta poetica comporta “mettersi alla finestra e lasciare il vostro senso ritmico aprirsi e chiudersi, aprirsi e chiudersi, spontaneo e vigoroso; fino a che una cosa non si trasformi nell’altra, ed un tutto non si componga dagli sparsi frammenti…”.

«if fragmentation’s so hot / collaging the artform of the now», ecco enunciata la teoria che è sempre l’essenziale presupposto di qualsiasi forma d’arte. Una volta scelto, lo stile viene perseguito per tutto il volume senza concedersi sbavature, con costanza e coerenza, per esempio in teoria IV: note di copertina [theory IV: sleeve notes] succede che Makris mescola ciò che vede, ciò che ascolta, ciò che sente, assemblando sensazioni ed emozioni, e dietro ai versi «I’m a high functioning narcissist / me myself / I choose life / recentering the conversation right here» si nasconde proprio il programma di tenere i sensi aperti come sensori atti a captare quanto gli ruota attorno.

Ogni verso compilato assomiglia ad un pezzo di collage scelto dai vari materiali che l’esistenza gli mette a disposizione, vedi in particolare fashion week ma tutto il testo viene sviluppato secondo un originale cut-up. Mentre nel famoso cappello Dada era l’istinto o la casualità a salire in cattedra, qui indubbiamente il poeta ha in testa ben presente la scena, la sequenza o l’azione o il pensiero da esibire, il suo compito principale consiste nel selezionare cosa scrivere ma soprattutto cosa omettere in modo tale che il lettore sia costretto a fermarsi, a riflettere per trovare il bandolo della matassa. Infatti ci troviamo di fronte ad un io (l’ego del poeta) in piena espansione ed il fatto di interrompere la catena narrativa con continue svolte rompe il ritmo di lettura. Nonostante ciò è abbastanza abile nel seguire ellitticamente il filo dei suoi calcolati e razionali cambi finendo in un poetico flusso di coscienza dove lo scarto, la cosiddetta illusione della attese andate tradite, è di norma.

Tecnicamente oltre alla già citata ellissi, si affida spesso alla similitudine «a packing effect / hexagonal like oranges in grocery stores», «we get it poets things are like other things» o alla metafora «we’re jammed at the gates» e, più raramente, alla permutazione, «you see this how the world’s arranged / this world is arranged how you see / how you see the world arranged is this / this is how the world you see is arranged» per dirci che il nostro povero mondo non cambia. Assente ogni tratto di punteggiatura, nessuna maiuscola, banditi i segni di interpunzione il che facilita la stesura mantenendola sospesa come in un microcosmo onirico.

Ci si concentri su rendered per capire come la narrazione, perché di narrazione seppur continuamente spezzata si tratta, avanzi a blocchi, «I was alive in a yurt on a cliff by the ocean at Big Sur / flanked by a bouncer & a gangland enforcer obsessed / with winning / Don rendered by Jon urgently needing detox».

Attraverso un paio di omaggi, il primo a Mallarmé in i’m story dove le parole vagano in libertà sul bianco della pagina, il secondo Whitmanesque («I work very hard guys /… my successes well-earned» e soprattutto «I was mesmerised by your words before I fancied mine»), s’intuiscono facilmente le origini.

Makris riesce a pilotare stabilmente in strada questa macchina di poesia anche davanti a curve pericolose (sto pensando alla zavorra del sentimentalismo o il voler sbandierare a tutti i costi il problema personale) in virtù di un controllo mentale che estromette in automatico gli elementi avulsi al suo poetare mantenendosi sempre sopra il livello di guardia del reale senza mai scendervi a patti, «if the moment’s gone / prematurely / create another».

E a proposito di problemi: «sincerely / my project genius / when you’re a problem you are an opportunity» oppure «institution is a language / institutionalised displacement is a tongue».

Apparentemente si potrebbe dire con Bernard Shaw “the golden rule is that there is not golden rule”, anche se il controllo cerebrale è ferreo, l’impressione che persiste nella mente del lettore è una stimolazione multisensoriale improvvisa e imprevista proveniente da ogni parte che avvolge e coinvolge allestendo in definitiva quello che è il giusto e sacrosanto trionfo dell’indipendenza della parola:

 

ink is drying

does anybody care

 

(io avrei aggiunto un punto di domanda ma il Nostro, coerente fino all’ultimo, avendo bandito ogni segno ortografico lascia che sia il corpo nudo e crudo del verbo a comunicare).

 

 

Christodoulos Makris, Contemporaneous Brand Strategy Document, London, Veer Books, 2023.

 

 

3 luglio 2023

“Nell’interiorità delle interiora”

 

È sempre un’ardimentosa sfida scrivere semplice, anzi sottovoce, senza roboanti effetti speciali e raggiungere la verità, o quantomeno quella che è la verità per Paolo (Ruffilli).

L’impresa gli riesce con apparente facilità conscio (vedi esergo a gli Affari di Cuore) che «la verità non è nelle cose ma nel linguaggio», (Wittgenstein) e che soprattutto i versi non si fanno con le idee ma con le parole (Mallarmé), le parole, a un tratto, / cominciano a strisciare / più viscide dei vermi / lungo il muro.

A monte c’è sempre l’ingombrante quanto essenziale tasso esistenziale, il cosiddetto vissuto, ricco o povero che sia non spetta noi giudicarlo, (un viaggio in Normandia, le vicissitudini amorose, la condizione coatta di un carcerato o drogato). Ciò che colpisce, in questo collimo con Alfredino Giuliani (prefazione a Le Stanze del Cielo) è l’estrema abilità, direi accortezza nel tenersi lontano dalle sacche o secche egocentriche ed ancorare la poesia non solo ad un contesto (lasciamolo senza aggettivi questo contesto) per approdare ad un assoluto dove l’esperienza personale addiviene universale. Tale processo, un sottile e rarefatto work in progress è possibile in virtù del fatto che Paolo “vuole essere vero” come dichiarava la neozelandese Mansfield. Ed a questo punto si chiude il cerchio, si parte dalla vita attraverso l’indagine dell’anima sottoposta al vaglio lessicale per tornare alla vita più alleggeriti dal fardello del vivere, e in questo procedere si riscopre una procedura del poetare.

Cosa è la poesia per il Nostro? (Poesia cos’è… / piccolo pesce/ dei lofobranchi / azzurro delicato, / con pinne come ali / bocca rotonda / e due liste di denti , / pegasus draco / finito tra le zampe / della gatta). (Da notare l’uso della parentesi qui impiegata non in senso sanguinettiano né tanto meno alla Cummings, ma in mera funzione di controcanto emotivo-intellettivo rispetto quello a descrittivo-visivo).

Metaforizzando la descrizione del pesce emergono i tratti della sua poesia, azzurra e assai delicata, con pinne che consentono di spiccare il volo in qualsiasi momento per finire miseramente tra le zampe della gatta. Pur adorando i gatti capaci di dargli un’unica ebbrezza di tenerezza, qui la parabola della poesia si eclissa come zimbello ludico del felino.

Va detto, pertanto, che il dolore attraversa come un fil rouge tutta l’opera ruffilliana, è una costante che spunta da ogni lato. Evidente ne Le Stanze del Cielo: devi scavare un tunnel / dentro la montagna / del dolore / che pesa qui dovunque, / ma poi la galleria / ti crolla addosso / e ti rifà sepolto / di nuovo sotto le macerie. Oppure, siamo un fastidio / insopportabile a chiunque, / perfino ai nostri cari / che si vergognano di noi. E ancora, per ogni grammo di piacere / i quintali di dolore.

Pound in uno dei Cantos pisani, incarcerato dentro una gabbia peggio di una bestia, giorno e notte, guardando il bel cielo di Pisa osò scrivere che da tutta quella bellezza qualcosa di buono doveva pur nascere (cito a memoria), leggendo invece, queste stanze resta in bocca un sapore amarognolo senza conforto né speranza. La stessa sofferenza traspare anche dagli Affari di Cuore, a parte la prima sezione Per Amore dove si declina il trionfo carnale, le altre sezioni Canzonette della passione amara, Guerre di posizione e Al mercato dell’amor perduto denunciano un continuo stato di in/sofferenza, forse inquietudine magari necessario per far poesia che però lo condanna «infelice / della mia felicità».

Sicuramente una mente tranquilla come sosteneva Lepoldo María Panero, non serve alla magia ni tampoco a la poesía. Eppure in questo duetto tra poeta e poesia bisogna accettare anche la Morte che come si sa, in letteratura giunge senza particolari scossoni, E si tace / perché tutto / diventa indifferente / nella pace del silenzio.

L’abilità cocciuta del Nostro consiste nel non arrendersi anche davanti all’evidenza della negatività imperante e della disillusione, in questo assomiglia a Marie (una bellissima Charlotte Rampling in Sous le sable di François Ozon, 2000) che non ammette per niente al mondo anche davanti al cadavere steso su un tavolo dell’obitorio che il marito sia morto, anzi gli corre incontro in un impossibile ma per lei possibile amplesso lungo una desolata spiaggia oceanica . Il compito di Paolo, pienamente riuscito, rispecchia l’impossibile progetto ma per lui possibile di «trovare la relazione tra cose che sembrano inconciliabili e tuttavia hanno una affinità misteriosa, assorbire senza paura qualsiasi esperienza capiti a tiro, saturandovene così completamente che la poesia non sia un frammento ma un tutto» (Virginia Woolf), un tutto molto compatto ed assai omogeneo da centellinare adagio meditando verso dopo verso, dove, secondo la nota teoria freudiana dell’inconscio, le parole sono maneggiate come fossero cose.

 

 Paolo Ruffilli:

Le Stanze del Cielo, Rimbach (Germania), Verlag Im Wald, 2008.

Diario di Normandia (1975-79), Iasi (Romania), Princeps Edit, 2009.

Affari di Cuore, Torino, Einaudi, 2011.

 

 

26 giugno 2023

Abraham Abulafia: la profondità del profondo-depth of the deep

 

Rembrandt nel 1652 circa incide un’acquaforte che è unanimemente ritenuta riprodurre Faust nel suo studio. Invece a pagina 15 di questa ennesima ma davvero efficace traduzione del Sefer Yesira, il traduttore-curatore facendo riprodurre la stessa immagine, in didascalia sostituisce Faust con «Abraham Abulafia after Rembrandt». Ci sono tre secoli di differenza tra i due soggetti, Abulafia vive e muore nella seconda metà del XIII Secolo mentre Il Libro di Faust viene scritto nella seconda metà del Cinquecento dal tedesco Johann Spies. Che cosa provoca tale sostituzione che a prima vista sembra gratuita? Sullo sfondo in controluce, disposta contro una chiara vetrata compare la sacra volvella ideata da Abulafia per entrare in contatto con il divino. In ossequio ad un’interpretazione esoterica, Rembrandt riproduce lungo il contorno del cerchio le 22 lettere dell’alfabeto ebraico che son il punto di partenza su cui poggia tutta la dottrina cabalistica del rabbino. Potrebbe essere Faust stesso che osserva la volvella di Abulafia, ma, potrebbe essere Abulafia in persona visto che è colui che per primo l’ha elaborata, e visto che tutte le seguenti da quella di Raimondo Lullo in avanti discendono dal suo prototipo. Analizzando a lungo questa preziosa acquaforte il giorno di Pasqua del 2023 (Fondazione Magnani Rocca, Traversetolo di Parma), mi son convinto che il curatore abbia ragione. Se si osservano attentamente le lettere in circolo, si scopre che non riproducono le lettere ebraiche dell’alfabeto ma le tipiche permutazioni elaborate dal rabbino per incontrare Dio, infatti si legge «AMRTET ALGAR ALGASTA». L’incisione centrale INRI (Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum) non pare turbare troppo la nostra tesi. Quindi quella volvella non sottende riferimenti alchemici né magici, semplicemente riproduce alcuni incipit dei metodici esercizi abulafiani dei quali Rembrandt non era evidentemente a conoscenza, a suoi tempi andava più di moda il Faust.

Mi ripeto che mai riproduzione pur nella sua statica fissità è riuscita così bene ad illustrare visivamente una pratica religiosa. Abulafia viene disegnato di profilo con il viso rivolto verso il cerchio illuminante-illuminato che è il vero protagonista perché esso viene posto, come detto, contro una finestra e per accentuarne la luminosità, l’incisore olandese vi traccia attorno una girandola di raggi solari in netta espansione spaziale. Nella iconografia cristiana tale trattamento viene riservato solo alla testa dei santi e del Cristo stesso, qui invece tale splendore viene essenzialmente emanato dalla corona alfabetica. Sul tavolo un libro semiaperto appena consultato che invece lancia un aggancio con il dio cristiano spesso riprodotto con un libro aperto in mano.

Scorrere questo volume ricco di suggestioni immaginifiche del tipo « comprendere con saggezza e diventare saggi attraverso il comprendere» oppure «il caos è la linea verde che racchiude il mondo» scalda il cuore rispetto alla saturazione invasiva ed invadente del web. Resta un bel sollievo poter leggere un libro che incita, invita, solletica la creatività di ognuno di noi.

 

Quando mi avvicinai per la prima volta all’opera di Abulafia più di venti anni fa, mi colpì subito il fatto che tutto il suo apparato linguistico-mimico teso alla scoperta divina non si rivolgesse soltanto agli adepti della cabbala ma a tutti. In questo senso io ho fatto mio l’insegnamento di questo profeta-poeta come lo definisco nella mia opera Romanzi nelle i. Tutte le regole che indica, per quanto difficili esse possano sembrare, sono alla fine praticabilissime e tendono a staccare, a defamiliarizzare il proselito dai richiami del mondo per indirizzarlo verso la rivelazione.

 

Questo processo non si differenzia molto da quello zen di marca giapponese, dove il satori corrisponderebbe all’auspicato incontro con YHVH, con ciò che la bocca non può pronunciare, con ciò che l’occhio non può vedere, con ciò che l’orecchio non può udire. Le 22 lettere dell’alfabeto vengono letteralmente movimentate, spostate e quindi mutuate in un irrefrenabile, fantasmagorico ritmo attraverso la tecnica della permutazione dove anche le contraddizioni vengono risolte, il fuoco trasporta l’acqua, il brutto diviene il bello, lo schiavo è il padrone. E ponendoci in questa ottica risulta coerente la definizione di creatività forse un po’ in debito mcluhaniano, «essa avviene quando due diverse cose si incontrano e danno vita ad una terza cosa». Questo incontro viene raggiunto affidandosi ai sensi strettamente citati in ordine di importanza: vista, udito, olfatto, il parlare, tatto e sesso, l’agire e il suo opposto, ira e riso, meditare e dormire.

In estrema sintesi appare abbastanza evidente che siano 231 le linee che uniscono le 22 lettere dell’alfabeto ebraico, ma occorre altresì ricordarsi che se dici 12 non è 13, e se dici 12 non è 11, (kōan cabbalistico).

 

Sefer Yesira Book of Creativity, a cura di Avi Solomon, Keighley (Leeds), Hadean Press Limited, 2022.

 

16 maggio 2023

Poesia Sonora nel continente brasiliano

 

Vengo a conoscenza soltanto ora, con un ritardo di quasi quindici anni, di questa stimolante ricerca, con un sottotitolo molto coinvolgente e assai giustificato, «storia e sviluppi di una avanguardia poetica». Trattandosi di una materia di nicchia come si suole dire all’interno della galassia Arte Sonora, non avverto per nulla il fatto che siano passati tanti anni da quando è stata pubblicata. Non è cambiato nulla dal 2009 ad oggi se non che qualcuno nel frattempo se n’è prematuramente andato ma i temi di base sono sempre gli stessi. Wilton Azevedo (purtroppo scomparso di recente) firma la prefazione ma ha ragione nel sostenere che Philadelpho Menezes sarebbe stata la persona più giusta per scriverla, (anche Phila, come io e tutti noi lo chiamavano ci ha lasciati troppo presto agli albori del 2000) perché tutto lo studio si dipana sotto l’influsso del grande ricercatore e poeta paulista. D’altra parte è stato il primo che ha parlato di Poesia Sonora introducendola nel continente brasiliano ed è pertanto più che lecito che Brenda vi faccia continuo e fedele riferimento.

La Poesia Concreta lanciata negli Anni Cinquanta dal gruppo Noigandres non contemplava l’aspetto performativo, esso comparirà molto più tardi quasi al tramonto del Novecento, mentre va annotato che tutto il movimento dei cantautori brasiliani, penso soprattutto a Caetano Veloso, ha svolto una funzione sicuramente salutare nella simbiosi tra parola orale e musica, non caso lui stesso ha «musicato»  testi di Augusto de Campos che comunque non erano stati concepiti con tale scopo, e forse questo eccesso di musicazione poetica ha contribuito paradossalmente a bloccare un potenziale sviluppo della Poesia Sonora che sia in Europa che in America era già ampiamente diffusa e praticata con fior di festival ed innumerevoli pubblicazioni in vinile e cartacee.

La Poesia Sonora non ha in ogni caso nulla a che fare con la musica come più volte ribadito, quindi Veloso non ha fatto della poesia sonora ma ha creato delle canzoni. Bisogna aspettare, tra la fine degli Ottanta e l’inizio dei Novanta, i CD e le pubblicazioni curate da Phila per ascoltare le prime espressioni di poesia sonora in terra brasiliana. Se un poeta serio e preparato come Marcelo Dolabela (anche lui sfortunatamente scomparso da poco) dichiara ancora nel 2007: “No Brasil há uma grande confusão entre Poesia Sonora e a Poesia Oral declamada”

significa che i conti ancora non tornano, forse perché quei protagonisti che avrebbero dovuto issare la bandiera della Poesia Sonora non ci sono più né emergono le nuove leve che la possono portare avanti.

Chi legge un testo scritto non fa poesia sonora e viceversa il poeta sonoro non ha bisogno della scrittura, usa solo la voce. La confusione è figlia della mancanza di chiarezza negli elementi coinvolti. Già il termine «poesia» è gravido di classici ed estremamente inflazionati significati, per cui affiancargli l’aggettivo «sonora» vuol dire anzitutto cancellare in un sol colpo tutta la tradizione scritta. Il vero problema sorge semmai nel passo successivo perché la Poesia Sonora come la mia Polipoesia avviene solo e soltanto nella live performance dove si relaziona con tutti quegli aspetti tipici dello spettacolo (musica, movimento, luci, oggettistica, immagini, abiti ecc.). Come avviene questo accoppiamento tra la voce, la Poesia Sonora e tutti questi aspetti spettacolari? Secondo la concezione intermedia o ma anche ipermedia si realizza attraverso una fusão ovvero una fusione dove tutto si mescola perdendo i connotati di origine. Io penso invece, ed è il succo della mia teoria della Polipoesia, che la voce, la sperimentazione sonora debba necessariamente mantenere un ruolo preponderante, primus inter pares, soprattutto verso la musica, al punto che spesso io ho parlato di non-musica in Poesia Sonora proprio per evitare che la performance diventasse sinonimo di canzone.

Infine, il capillare lavoro svolto da Brenda assume una duplice funzione, primo richiamare all’ordine tutte quelle forze che possono imprimere nuovo vigore a questa disciplina capace senz’altro, in quanto avanguardia, di catalizzare le energie necessarie per un ulteriore sviluppo. Secondo, forte di un solido apparato storico, le spetta l’onere di indicare con grande senso di responsabilità, una estetica di lavoro che basandosi sulla voce sappia ripetere i successi ed i fasi della grande stagione europea ed americana.

 

Brenda Marques Pena, Poesia Sonora: História e desdobramentos de uma vanguardia poética, Belo Horizonte, Tradição Planalto Editora e Distribuidora Ltda., 2009.

 

11 maggio 2023

Quando Vita significa Morte (e viceversa)

 

Questa raccolta esce dieci anni esatti prima della sua morte avvenuta a Las Palmas della Gran Canaria nel 2014 e può essere considerata legittimamente un suo testamento poetico. Leopoldo María Panero nato nel 1948 a Madrid, neanche diciottenne si arruola nelle file del Partito Comunista Spagnolo, allora illegale, cimentandosi nella lotta politica in quel periodo assai rischiosa. In quegli stessi anni la musa o meglio la scintilla che gli fa scattare la molla della poesia gliela procura il catalano Pedro Gimferrer conosciuto a Madrid in un jazz club. Causa un traffico di droga viene messo in carcere dove, lui lo stesso lo scrive nelle note biografiche, scopre la sua omosessualità fino ad allora latente. Da lì in avanti sarà « una lunghissima sequenza di manicomi che mi separa definitivamente dai miei amici fino al punto da farmi odiare mia madre ». Lo stato di figlio d’arte, il padre Leopoldo Panero era un famoso poeta spagnolo ed anche la madre Felicidad Blanc era un’artista riconosciuta, non basta a salvarlo dalla perdizione.

L’opera letteraria dovrebbe sempre essere giudicata senza riferimenti agli influssi positivi o negativi che siano della vita  dell’autore. Se ho insistito questa volta sul tasto dell’esistenza, consentendomi un’inaspettata eccezione, significa che leggendo questi versi traspare un immediato ed irreversibile odio verso la vita generalmente intesa e per contro, un amore sviscerato ed ineludibile verso la morte, anzi vive solo e soltanto perché la morte arrivi presto a salvarlo da questo mondo immondo pieno di «pus e scoregge». Evidentemente per gonfiargli il cuore di cotanto rigetto ci voleva una esperienza altrettanto cruda e crudele che sancisse inderogabilmente il fallimento dell’essere umano. La vita per quanto essa sia sopra le righe non basta per fare della buona poesia, semmai rappresenta un serbatoio cui attingere per esibire tematiche estreme in maniera autentica, penso al caso della Patrizia Vicinelli, nonostante gli avvenimenti avversi possano sconvolgere o distruggere. Poi esiste anche il rovescio della medaglia, mi riferisco a Samuel Taylor Coleridge, a Thomas de Quincey, allo stesso Oscar Wilde, ovvero in virtù di tali sregolatezze si indagano o si raggiungono meandri mentali o antri subliminali generalmente proibiti ai praticanti una normalità assoluta, leggi per tutti coloro che si arrestano davanti all’abisso della trasgressione.

El misterio de la palabra, nel caso di Panero, deve essere risolto in termini di “un’arma caricata contro il perfezionismo della società borghese”, in questo senso ogni parola equivale ad un sasso lanciato contro la vetrina del perbenismo e del conformismo. Ascoltandolo leggere in una rarissima videoregistrazione presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Zaragoza del 1996, si percepisce nettamente questo astio connaturato riscontrabile in una lettura ruvida e a tratti sbiascicata come nella parlata incostante o nella gesticolazione a scatti forse conseguenza di una mente disturbata.

La poesia di Panero si muove attraverso due precisi cardini che fanno girare in circolo tutto l’apparato della scrittura. Non a caso son ricorso alla definizione circolare perché il metodo primario si basa proprio sulla ripetizione, «palabras espantosas, que dan miedo a la mirada, / que dan miedo a la mirada», [parole spaventose che incutono timore allo sguardo / che incutono timore allo sguardo] oppure «la vida que aun huele / y el dolor huele mal» [la vita che anch’essa puzza / ed anche il dolore puzza]. Ci sono termini come estercolmiradamiedo, nadapedo [scoreggia] che vengono ripresi in continuazione fino all’ossessione quasi ad inculcarci lo stesso eccesso di disperazione. Due parole aleggiano punteggiando tutto il testo, vita e morte: «La vida es solo un riesgo / un riesgo de morir, sólo un deseo / permanente de morir, frente a la cosa / desnuda como un ojo, como el pez, al que la muerte / llamò vida», [la vità è semplicemente un rischio / un rischio di morte, semplicemente un desiderio / permanente di morte, davanti alla cosa / nudo come un occhio, come un pesce, che la morte / chiamò vita]. E ancora «El terror / oscuro de existir, oh vida, / reina oscura de la tiniebla / que es la única madre del ser», [Terrore / oscuro d’esistere, oh vita / oscura regina delle tenebre / sei la unica madre dell’essere]. Leggeri tocchi sperimentali, intraverbali nella fattispecie, spuntano qua e là a vivacizzare un panorama sempre tendente al funereo: «Mallarmé, Ma larme», « o crepitus / Ah decre-pitus, viejo contra el mar / marea de la copa», [o crepitus / Ah decre-pitus, vecchio contro il mare / marea nel calice]. L’ossimoro ámame en la muerte resta il tema principe di tutta la raccolta: «el poema / es como jugar a la ruleta rusa », «y la vida es un cáncer y el poema es un pus».

 

Leopoldo María Panero, Danza de la Muerte, Tarragona, Ediciónes IGITUR, 2004.

 

9 maggio 2023

Un’indisciplina assai disciplinata

 

L’autore è il classico uomo giusto al posto giusto, ha diretto con Francisco Felipe per la Radio Nacional Dos di Spagna dal 1985 fino al 2008 il programma Ars Sonora, ed è in questa veste che io l’ho conosciuto quando nel 1992 mi commissionò un’opera da trasmettere nella rassegna Ciudades Invisibles (dedicata a Italo Calvino), poema che eseguii in anteprima nel palazzo del locale Istituto Italiano di Cultura, a Madrid. Lui, oltre che divulgatore incallito è anche artista affermato, firma lavori d’arte sonora in coppia con Concha Jerez o in singolo. Tutto questo per ribadire che l’Arte Sonora in spagnolo Arte Sonoro perché la parola arte è a differenza dell’italiano maschile, lui l’ha vista crescere. È vero che il termine già aleggiava nell’aria sin dagli anni Sessanta, penso a Cage o a Pierre Schaeffer, però è altrettanto vero che solo il passaggio cruciale tra l’epoca analogica e quella digitale, diciamo grosso modo negli anni Ottanta, ne sancisce l’indiscutibile affermazione.

Il volume in questione, molto corposo, oltre 300 pagine fitte di nomi, opere e soprattutto acute riflessioni, copre un periodo molto ampio, dalla seconda metà del secolo scorso fino all’oggi. È scritto con garbo, con un’apprezzabile senso dell’autoironia che gli consente di procedere pagina dopo pagina prendendo per mano il lettore anche quello non avvezzo al tema, sottoponendogli dubbi e certezze, a volte raffiche di domande, talora senza fornire risposta perché l’autore si aspetta che sia il lettore stesso a darne una risposta. La prima ragione che lo spinge a scriverlo, è del tutto legittima, ritiene, ed io con lui, che tutte le esperienze che annovera sotto l’amplio ombrello di Arte Sonoro (musica concreta, elettronica, poesia sonora, audio art, sound art ecc.) siano destinate a scomparire, per cui onde evitare che cadano nell’oblio, s’è deciso a fissarle per iscritto una volte per tutte. Tale timore è motivatissimo perché stiamo trattando una tematica aleatoria, impalpabile, «porosa» per usare un aggettivo colto durante la lettura, quindi sfuggente, un qualcosa che possiamo solo ascoltare, mai toccare né vedere se non grazie ad uno spettrografo. A differenza dell’arte che dopo Duchamp si è evoluta in concettuale, accantonando l’aspetto retinico, nell’Arte Sonora non ci siamo mai staccati dal sistema cocleare, senza il quale non si accede al miracolo dell’ascolto.

Per Arte Sonoro è da intendersi un tipo di ricerca svincolata dall’ambito musicale “ontologicamente indipendente dalla musica” ha sentenziato a ragione Javier Maderuelo, dove la differenza tra i vari generi viene quasi se non del tutto azzerata. Si potrebbe discutere a lungo sull’uso della terminologia adottata perché c’è chi rifiuta la suddetta definizione, ça va sans dire che basta un utilizzo anche minimo di sonorità, naturalmente non musicali, per ricadere dentro quella etichetta. Questo riluttanza mi fa venire in mente coloro, per fortuna pochi, che pur osteggiando la mia Polipoesia di fatto non solo la praticano, magari senza rendersene conto, ma soprattutto prendono parte a festival o manifestazioni dichiaratamente ispirate a quella teoria.

L’Arte sonora, e con essa la poesia sonora, o la stessa polipoesia, o la sound art si appoggiano dichiaratamente al côté della «auralidad», questa ne è l’insostituibile essenza, il cosiddetto primo motore da cui tutto dipende. Allora perché, ricorrendo ad una domanda da scioglilingua, l’Arte Sonora si riscopre più che interdisciplinata indisciplinata? Dico subito che il tratto indisciplinato non si riferisce in nessuno modo all’artista o poeta perché se c’è una caratteristica comune alle loro opere è la rigorosità, dove tutto deve quadrare alla perfezione, si veda ciò che io chiamo schema di esecuzione. L’indisciplina si annida nella mancanza di referenze sia critiche che scolastiche, nel background socio-politico, su certe egemonie culturali che dividono la produzione in atto in centrali e periferiche. Mancando di fatto spesso la presenza delle Istituzioni, succede che l’artista si trasforma in commissario con esiti deleteri ben oltre il nefasto binomio centro-periferia. Se la premessa è “ridurre la distanza tra rappresentazione e realtà” (Felipe Lagos Rojas),  l’autore si affida agli insegnamenti di tre grandi, i già citati Cage e Schaeffer più Raymond Murray Schafer come supreme guide per organizzare quella molteplicità pressoché infinita di suoni percepita dalla realtà fisica senza tralasciare i contributi dei poeti sonori.

 

José Iges, Arte Sonoro: una indisciplina, Città del Messico, Exit, 2022.

 

18 aprile 2023

Totaler Künstler

 

La prima volta che ho incontrato e conosciuto Jürgen Olbrich fu in un festival internazionale a Québec nell’autunno del 1986, entrò in scena molto deciso con una bottiglietta di conserva in mano, piazzatosi al centro del proscenio se la mise in equilibrio sulla fronte come un vero giocoliere da circo, a poco a poco il contenuto, una passata melmosa di pomodoro, cominciò a colargli prima lungo le guance, poi sulle spalle e su tutto il corpo, tra gli oh di scoramento del pubblico che, a quel punto non capiva cosa sarebbe successo. L’azione terminò quando lanciò in aria una confezione di spaghetti, chiudendo tra gli applausi la performance «spaghetti al pomodoro». Anni dopo, in occasione di uno dei miei VideoSoundPoetry Festival presso il DAMS di Bologna, dietro mio invito, mi mandò un suo video O Ton (1987) dove riusciva in maniera armonica a coniugare l’azione del protagonista, lui stesso che si spostava in varie parti della città, con i fonetismi gutturali, quasi un singhiozzo di un compassato presentatore televisivo, sequenza fonica che suggeriva il titolo del lavoro, articolato tra improbabili sonorità e moti deambulanti ma silenti.

Tra questi due poli, la performance e il video, il Nostro sviluppa un incessante, instancabile lavorio grafico-visuale-manuale che definire con la sigla Mail Art è semplicemente restrittivo. Tra la enorme mole di auto-produzioni quasi a getto continuo, ne scelgo alcune che mi pare ben focalizzano la sua traiettoria artistica. In 1/5 del Mondo Manca (2013) compie una denuncia politica: si fa carico di scegliere una serie di cartoline riproducenti quelle che sono ritenute essere le zone più attraenti del pianeta, l’operazione artistica consiste nel raschiarne via una porzione, ciò che resta è un quadrilatero bianco che salta subito all’occhio e la dice lunga sulla fine che farà la nostra  beneamata Terra. Un’altra sua dichiarazione, sempre in tema politico, riguarda l’atteggiamento ecologico che ogni cittadino dovrebbe assumere soprattutto alla luce dei recenti disastri ambientali. In Sometimes is more often than you think, Berlino, Kultur in Lichtenberg, 2011, stampa immagini che lo ritraggono nella veste di operatore ecologico nell’atto di ripulire un giardino, una strada ecc., poi improvvisamente, lui si finge morto stecchito a terra, lungo la stessa strada e lo stesso giardino, tra l’indifferenza dei passanti. La vita continua nonostante a terra giaccia un corpo esanime.

Per completare il ritratto di artista totale non può mancare il riferimento linguistico. Scelgo tra l’amplia gamma a disposizione, due tipologie che ne rappresentano gli estremi. In Words-Works Text Cards (2011-19), confeziona delle massime che oscillano tra la profondità filosofica, il calembour e il divertissement con incursioni nella penetrazione intraverbale e il gioco optofonico, eccone alcune: «My ideas appear, when I’m not there», «Here is always everywhere», «this is MORE than nothing», «There is a lot of nothing around everything», «My thoughts constantly change shape», «Me is the smallest we», e infine, protendendosi fuori dall’angusto limite della scrittura «From now on, this sentence belongs to you».

Nella serie AutoPoem del 2006, sempre autoprodotta, deduciamo che si sia concentrato per trenta minuti esatti in un punto di una città tedesca ad osservare il traffico, ed in tempo reale abbia registrato sul taccuino le prime lettere delle targhe automobilistiche. Per esempio, la sequenza di una post-card (l’intera azione viene stampata su cartoline) riproduce ERE ECF ECE ETC GEHNY EKE EHX EN EPZ ETM perché a Essen le auto portano una targa che comincia sempre con E, in Bremen invece la sequenza sarà HBDZ HBEZ HBTE MIRU HBCI HBIA HBAK HBZU perché le targhe di quella città iniziano sempre con HB. E così via con tutte le altra città, Weimar sarà WE, Frankfurt F ecc. . Già il fatto di stampare per 16 o 17 righe la sequenza, che io ho trascritto solo una volta, variandola ovviamente, significa evidenziare solo in apparenza un non-sense, perché una volta compresa la chiave interpretativa il tutto diventa razionalmente più abbordabile, ma sfugge ancora da un punto di visto fonetico data la difficile pronunciabilità della serie. Infatti, il tutto si presta ad una performance orale che sfruttando sia la permutazione che la paronomasia può rientrare a buon diritto nella categoria del «verbo-voco-visual».

 

Jürgen O. Olbrich, 1/5 of the World is Missing, Kassel, No-Institute, 2013.

 

17 aprile  2023

Film senza film… per sognare

 

Perché occuparsi di un libro uscito per la prima ed unica volta nel lontano 1986? Perché, in primis, è esaurito, come l’autore stesso, [così si legge nelle note on line], poi perché è un libro nel suo genere, indefinibile, nonostante compaia la dicitura «romanzo» nel sottotitolo. Sfuggente e sfuggevole, collocabile più dalla parte di Marchesi (Marcello, di cui il Nostro era amico) che da quelle di Camilleri (Andrea) o Rossi (Aldo), sarebbe interessante conoscere come questa coppia abbia interagito con l’autore, probabilmente, dato l’esaurimento in atto, non lo sapremo mai.

Come Laurence Sterne fa comparire l’attesissimo Tristram Shandy bel oltre la metà del noto, corposo libro, il Nostro si arrovella dentro un tourbillion di quesiti estetici assai saggi del tipo: come scrivere, quali personaggi scegliere, come impostare la trama, come iniziare…, senza fornire risposta alcuna. Da par suo, menando il can per l’aia approda ad un punto fisso: “prediligere caratteri dai tratti universali, superando così barriere di tempi, regni e parlate”. Preso in parola, fulmineo scodella a ripetizione boutade che contemplano Lucia Mondella pronta a visitare Karl Marx in quel di Londra, oppure Molly Bloom, giustamente, fa una capatina a Vienna per consultarsi con Freud, mentre le sadiane Justine e Juliette si trasformano nelle gemelle Kessler adorate da Don Chisciotte e dal suo scudiero Sancho Panza. In simile contesto, ogni trama diviene superflua, un effluvio incessante e stucchevole da anarchico flusso di coscienza, appoggiandosi come puntello teorico al genio metanarrativo di Petrolini, “scopone / spariglio i sette / compro le scarpe / mi vanno strette / se qualche volta in festa io ballo / la mia compagna mi pesta un callo / monto in vettura / muore il cavallo”. I personaggi sono nominali e nominati per nome e cognome, ed evocati attraverso un prezioso e certosino lavoro di citazione, per esempio, prima battuta pronunciata da Molly Blum nell’opera di James Joyce Ulisse, 1922, oppure prime battute pronunciate rispettivamente da Justine e Juliette nell’opera di D.A.F. De Sade La nuova Justine ovvero le disgrazie della virtú, 1791, e ancora la prima battuta pronunciata da Lucia Mondella nell’opera di Alessandro Manzoni I promessi sposi, 1827. Se tanto mi dà tanto, vanno annotate anche le ultime parole pronunciate dal Mostro in Frankenstein di Mary Shelley, le ultime parole pronunciate da Don Chisciotte nell’opera omonima di Miguel Cervantes e le ultime parole pronunciate da Cosini ne La coscienza di Zeno di Italo Svevo.

Un collage di scritture dove il citazionismo esasperato si confonde con quella del testo stesso, se non ci fossero le note a specificarlo, nessuno si accorgerebbe delle diverse provenienze dei materiali letterari adottati.

A questo punto, ogni accadimento è possibile, l’unica certezza è che siamo di fronte a film senza avere a che fare con film, e forse questa è la vera maniera per sognare e realizzare l’impossibile, ad esempio, la Lady Roxana del Daniel Defoe va in sposa a quell’impotente dichiarato del bell’Antonio (Vitaliano Brancati); oppure s’insegue l’utopia del cambiamento radicale, “il movente del governo popolare nella Rivoluzione è la Virtù. E il Terrore è giustizia pronta ed inflessibile nel sangue, esso è dunque emanazione della Virtù”, così Robespierre nel 1793 circa i principi del governo rivoluzionario.

La parte più accattivante, come sempre succede in opere di questo genere, va colta nel linguaggio, qui nel ruolo di un vero ascensore, in gran spolvero dall’aulico al volgare. “La svelta e la lenta: modi gergali per definire, rispettivamente, la cocaina e l’eroina”, tanto per intenderci, avanzando per freddure, che so tornar comodo soprattutto nell’estati roventi, “se l’ozio fosse disciplina sportiva, vincerei l’oro alle Olimpiadi” azzeccato autoritratto dell’autore. La comicità è il fil rouge che attraversa tutta l’opera, si consulti il cruciverba a luci rosse, “ 13 or. Virili condanne [Pene], 10 or. Resurrezione della carne [Erezione], 28 or. In due per un bacino [Cosce].

C’è una battuta di Totò nel film I due orfanelli, 1947, dove il comico parte-nopeo e parte-napoletano, dopo aver ammesso sotto tortura molte incredibili colpe, ne confessa anche una che ritiene gravissima: la scoperta dell’America, e proprio in America, esattamente a New York, termina una dei più bei film di Luis Buñuel Simon del deserto, 1966, la cui ultima battuta la pronuncia il demonio sotto le spoglie di un’avvenente signora bionda, rivolta a Simon, non più eremita ma seduto a sorseggiare un drink in una rumorosa discoteca di Manhattan, “è la vita ubriacone devi sopportarla ! Devi sopportarla fino in fondo!”.

 

Armando Adolgiso, Film senza film, romanzo, Viterbo, Stampa Alternativa, 1986.

 

27 febbraio 2023

Le Pennellate dei Pittori Profeti

 

“Alberi altissimi, chiome fitte, ci impediscono di vedere lo scorrere delle nubi. Sul terreno l’intrico è tale che il procedere è difficoltoso”, al punto che le Tre Bacche di Rovo non solo non compaiono mai, ma dobbiamo andarcele a cercare noi stessi attraverso una lettura paziente, lenta e circospetta dell’intero volume. Senza neppure un sottotitolo un lettore sprovveduto e superficiale potrebbe pensare ad un trattato sulla flora carsica, visto che spesso si è attratti in libreria da copertine accattivanti che tanto promettono e poi non mantengono. A lettura ultimata le tre esili bacche si prestano a molteplici interpretazioni, di certo servono all’autore come miccia, come input, come vettore per delineare un ricchissimo, dotto excursus diacronico sullo stato dell’arte partendo dall’Ottocento fino ad oggi, infilando con logica ferrea un’inarrestabile sequela di ragionamenti che ne denunciano il degrado se non la deriva.

Dove si annidano queste tre esili bacche? Anzitutto dentro un’arte contemporanea ritenuta dai più incomprensibile: il Nostro si infervora e subito si adopera per convenire che è sempre stato così, posto come premessa che ci si ponga nel côté sperimentale od innovativo, (non tutti sono stati dei Jacques-Louis David le cui opere incontravano il favore di ogni stagione ideologica monarchici o giacobini o republicani che fossero). A ragione ci ricorda che Degas, Seurat, gli stessi Van Gogh e Gauguin, al di là del loro sostanziale isolamento esistenziale, non solo vennero rifiutati dalla società e dai vari Salon, ma neppure considerati come pittori, anzi furono ridicolizzati senza ottenere alcun riconoscimento in vita. Nemo propheta in patria.

Poi ci sarebbe da discutere sul perché, soprattutto nel caso di Gauguin, si voglia essere accettati da una società che si disprezza e si rifiuta in toto, ma questo mi porterebbe fuori dal seminato. Se è sempre stato così, allora non ha senso alzare oggi ingiustificati lamenti. È però un dato di fatto che storie video di novanta minuti possano essere ridotte a cinque con risultati molto più convincenti, e ancora, purtroppo capita di scontrarsi andando per gallerie e musei contro quell’enfasi, quel fuori luogo, quell’extra strong che genera solo noia. Altresì, dove trovare l’antidoto a quelle montagne di immagini patinate o digitali che durano il battito di una farfalla prima di trasformarsi da epigonismo gratuito in cenere dopo aver soddisfatto narcisisticamente solo e soltanto il supposto artista di turno? Le Tre Bacche di Rovo accennano ad una possibile soluzione, fatta di un ritorno ai sentimenti, amore e amicizia su tutti, oltre all’occhio e al cervello, il cuore, anche se onestamente io non vedo possibile nessuna catarsi in una società come quella attuale pullulante di cinici predatori e di tanti invisibili Grandi Fratelli.

E tessono, sempre le Tre Bacche di Rovo in azione, l’elogio indiscusso della irriducibilità, vero cavallo di battaglia del quartetto già citato cui va aggiunto Paul Cézanne. Se non avessero lottato contro tutto e tutti, l’arte contemporanea avrebbe preso un’altra piega. Questo vuol dire che è necessario estraniarsi dal tessuto sociale, ignorare il diniego e lo sberleffo cui si è sottoposti e seguire solo e soltanto la fiamma ardente della propria ossessione. Meglio se autodidatti, ammiccano ancore le bacche. Quanti sedicenti poeti, «blasonati interpreti» occupanti prestigiosi scranni accademici sbandierano, ahinoi, una mediocre se non scadente scrittura! Mentre figure che si sono tenute lontano dalle istituzioni hanno fatto la storia della letteratura.

Indubbiamente la conoscenza dei materiali e soprattutto lo studio degli strumenti ha svolto un ruolo chiave non solo in architettura ma anche in arte. Viene fatta risalire ad Alighiero Boetti, qui il Nostro si dimostra di manica larga, l’apertura alle manovalanze, tessili nel caso specifico, che eseguivano l’opera. Al posto della manualità creativa s’introduce la ripetitività. A ben vedere si tratta, invece, di carenze strutturali nel produrre i manufatti e quindi si scivola inevitabilmente nella pura delega. Il pittore che ricalca un disegno, un artista che si limita al bozzetto rinunciando ad eseguirlo di persona, eleva al rango di artista quell’artigiano chiamato a realizzarlo. Io ho sempre pensato e penso che la tecnologia vada compresa e piegata ai propri fini. Per questo deve essere studiata per non subirla. E così dovrebbe essere per qualsiasi altra tipologia tecnica. Può darsi che un artista possa concedersi il lusso di ignorare la carpenteria, i relais dei trasformatori per l’accensione dei neon o le modanature dei profilati, ma a quel punto l’esito finale va condiviso con chi quelle manualità le ha per competenza.

Secondo Gadda sono “i fatti minimi che fanno grande un artista”, guardando Déjeuner sur l’herbe di Édouard Manet l’elemento minimo per eccellenza, oltre al cesto di vimini è un uccellino in volo, il Nostro, in ossequio all’ingegnere innovatore del romanzo, chiosa “probabilmente un lucherino maschio, un passeriforme della famiglia Fringillidae) [sic]. Se il linguaggio è “il più pericoloso di tutti i beni” (Hölderlin), il rischio d’impiegarlo va ugualmente corso usandolo ad oltranza, chissà anche distruggendolo e forse in questa maniera, lo si rigenera. Certo, il linguaggio anticipa i tempi, a volte “li tradisce e si tradisce” ma non è detto che venendo meno il significato il significante non illumini di più la temuta oscurità. Mai temere l’avanguardia, mai nelle melme della retroguardia!

 

Roberto Vidali, Tre Bacche di Rovo, Trieste, Juliet Editrice, 2022.

 

20 febbraio 2023

La Voce Regina la Voce dei Poeti

 

La Voce Regina riapre i battenti dopo un periodo di forzata chiusura, e lo fa in grande stile raddoppiando l’offerta della voce dei poeti. Un consistente ampliamento sia della sezione storica (Voce Regina 1) dedicata alla poesia sonora sia quella della grande stagione della poesia ispano-americana (Voce Regina 3) è stato effettuato per volere dell’Amministrazione Comunale di Bologna che da questo momento in avanti prende in carico l’archivio come patrimonio da salvaguardare in pianta stabile. Oltre al nuovo look dell’interfaccia creato da Chialab, la vera novità consiste nell’apertura in rete da parte di molti poemi archiviati, il fruitore pertanto può ascoltare la voce di poeti direttamente sul suo computer o tramite cellulare. Il restante invece va fruito in loco recandosi nella storica sede allestita nella Biblioteca Sala Borsa, in alcuni Dipartimenti della Università di Bologna e nel breve in tutte le biblioteche dell’area metropolitana del bolognese.

È motivo di grande soddisfazione non solo constatare il salvataggio di un materiale che essendo stato registrato in maniera analogica stava per deperire inesorabilmente ma anche vederlo collocato nella sua nuova veste digitalizzata dentro meritorie istituzioni.

La realizzazione di questo ambizioso piano inizia per volontà dell’allora assessore alla cultura Angelo Guglielmi che ha fortemente voluto nel 2006 allestire il primo nucleo della Voce Regina, quello relativo alla poesia sonora perché apprezzava la validità di questo tipo di sperimentazione. “Non ci si rende mai bastevolmente conto – era solito ribadire – di quanto sia importante anzi utile (straordinariamente utile) disporre di registrazioni di testi poetici interpretati dagli stessi autori. Non si tratta soltanto del piacere di possedere un documento di gran pregio che consente come di riportare in vita poeti scomparsi o comunque di risentirne la voce come se fossero ancora presenti. L’importanza va molto al di là della suggestione di una vita ritrovata. E questo vale soprattutto in maniera particolare per i testi della poesia contemporanea”.

Più che un programma una vera dichiarazione d’intenti che abbiamo cercato (il noi si estende al mio sodale nonché amico Roberto Pasquali) di sostenere in tutti questi anni mantenendo fede ai suoi dettami. Ricordo ancora quando gli presentammo il progetto per la prima volta, Guglielmi rimase da subito ben impressionato “perché – ci tenne a precisare – mi interessa costruire qualcosa che non c’è!”.

In questo revival di ringraziamenti, al di là degli sponsor bancari che ne hanno consentito la messa in opera, vanno menzionate due figure che hanno collaborato attivamente affinché la Voce Regina corresse rapida lungo i binari giusti, Gian Mario Anselmi e Niva Lorenzini e tutto il Dipartimento di Italianistica dell’Università.

Sin dagli inizi della nostra carriera, ci ha sempre accompagnato un desiderio di raccogliere materiali, di collezionare prodotti d’arte, l’Archivio 3ViTre di Polipoesia nasce quindi nei primi anni Ottanta con lo scopo di promuovere, archiviare e documentare il variegato mondo della sperimentazione poetica, (poesia visiva, poesia visuale, poesia fonetica, poesia sonora, videopoesia).

La triplice V deriva da un catalogo edito nel 1982 Visioni Violazioni Vivisezioni segni & suoni della poesia contemporanea, mentre il termine Polipoesia risale alla mia teoria, tesa alla definizione, in termine critici, della performance di poesia sonora, infatti nel 1987 esce il Manifesto della Polipoesia, nel catalogo Tramesa d’Art, Valencia.

Oltre 500 ore di poesia sonora, circa 200 ore di videopoesia, un migliaio di originali di poesia visuale, una ventina di carteggi storici con i protagonisti dell’avanguardia internazionale, questi in breve i numeri dell’Archivio. Numerose manifestazioni sono state organizzate, da citare almeno i Festival di Poesia Sonora e  il VideoSound Poetry Festival. In veste di editore l’Archivio ha prodotto oltre una ventina di dischi in vinile sia a 45 giri che in LP, vari Cd e CDRom.

 

La Voce Regina, vernissage 10 febbraio 2023, ore 18, Sala Conferenze di Biblioteca Sala Borsa, Bologna.

 

24 gennaio 2023

Tutte le arti tendono alla performance

 

Il titolo ricalca quello di una fortunata rassegna bolognese della fine degli anni Settanta, primi Ottanta, che a sua volta parafrasava un famoso aforisma di Walter Pater «tutte le arti tendono alla musica». Era quello un periodo indubbiamente ricco di stimoli, al contrario di chi pensa e svilisca gli Ottanta come «anni di merda». Per esempio non si può passare sotto silenzio l’avvento dei nuovi media, l’affermazione  del movimento femminista, la messa in auge dei centri alternativi, il boom delle droghe leggere, il viaggiare come esperienza di vita, l’inizio della perestrojka e la performance, ora intesa nel suo significato più ampio, faceva parte integrante in pianta stabile di quella fioritura. A monte, forse bisogna chiederci perché proprio la performance?

Bruce Nauman durante una recente presentazione alla Punta della Dogana a Venezia ha dichiarato senza tanti mezzi termini di aver scelto il corpo come mezzo di indagine e di ricerca perché non gli costava nulla in quanto lo aveva gratis. Può essere una risposta plausibile senza mettere sul piatto della bilancia l’altissimo peso che ha il narcisismo degli artisti.

La ragione principe di quella esplosione sin dai Sessanta va individuata nella presa di coscienza del proprio corpo nella sua integralità, si va dalla «masturbazione» di Vito Acconci, il famoso Seedbed del 1972 al notissimo Imponderabilia del duo Abramovic-Ulay nel 1977, da Vista zero di Tomaso Binga (1972) al Consumarsi di Libera Mazzoleni, dieci anni dopo. Il corpo è pertanto il perno attorno al quale tutto il poliedrico mondo della performance ruota, al di là delle etichette e delle definizioni. E per corpo, lo ribadisco, è da intendersi ogni parte di esso, voce inclusa.

Fiumalbo, un paesino dell’Appennino modenese quasi a ridosso del confine toscano, ospitò nel 1967 una delle primissime manifestazioni pubbliche off, furono parecchi gli artisti ad optare per azioni aventi l’oralità come protagonista.

E quest’aspetto non va affatto sottovalutato perché spesso la body art è silente e la performance d’arte ricorre al linguaggio in termini esplicativi raramente creativi.

Nell’esposizione curata dalla coppia Lara Conte-Francesca Gallo, la sperimentazione orale non viene messa in second’ordine, anzi viene citata all’uopo la benemerita Baobab, rivista di informazioni fonetiche edita dal compianto Ivano Burani senza dimenticare Fonosfera l’encomiabile programma di Rai Radio Uno diretto da Pinotto Fava ed Armando Adolgiso.

È sicuramente vero, come era solito affermare Beuys, che per comprendere il significato di una performance la si doveva compiere, il che sottintende che non esista un canovaccio prestabilito, una traccia certa da seguire, a dirla tutta un libero omaggio alla casualità del momento.

La prova del nove del riscontro dal vivo vale anche per chi ha una concezione più progettuale e meno istintiva della performance, la cui validità se non efficacia deve essere sempre verificata nel confronto-scambio tra pubblico e performer.

Mi riferisco a quell’atto unico ed irripetibile che è l’azione in sé con un emittente-attore e un ricevente-audience. Questo momento comporta valori di comunicazione e simbiosi percettiva che a volte travalicano i confini della performance stessa. Ed è proprio questo il fil rouge che accomuna tutte le esperienze documentate in mostra, più o meno dichiaratamente esse mirano a questo «oltre», verso l’al di là del puro contingente, in questo senso la performance risulta essere un pretesto per assurgere stabilmente dentro un contesto più duraturo, starei quasi per scrivere eterno. Infatti dopo oltre mezzo secolo da quando sono state ideate e realizzate sono in grado ancora di reggere la giusta tensione ed attirare attenzione e interesse.

L’esibizione romana del MAXXI ha l’indiscusso merito di aver selezionato 95 artisti come teste di serie per altrettante tipologie di performance, per cui il visitatore nell’enorme spazio dell’archive wall  ha la possibilità attraverso documenti, fotografie, video e testimonianze orali di passare in rassegna tutto quanto è successo in quel lasso di tempo cruciale per lo sviluppo della performance.

 

Territori della performance: percorsi e pratiche in Italia (1967-1982) a cura di Lara Conte e Francesca Gallo, MAXXI, Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo, Roma, 20 ottobre 2022-28 maggio 2023.

 

16 novembre 2022