Il Blog di Enzo Minarelli

Film senza film… per sognare

 

Perché occuparsi di un libro uscito per la prima ed unica volta nel lontano 1986? Perché, in primis, è esaurito, come l’autore stesso, [così si legge nelle note on line], poi perché è un libro nel suo genere, indefinibile, nonostante compaia la dicitura «romanzo» nel sottotitolo. Sfuggente e sfuggevole, collocabile più dalla parte di Marchesi (Marcello, di cui il Nostro era amico) che da quelle di Camilleri (Andrea) o Rossi (Aldo), sarebbe interessante conoscere come questa coppia abbia interagito con l’autore, probabilmente, dato l’esaurimento in atto, non lo sapremo mai.

Come Laurence Sterne fa comparire l’attesissimo Tristram Shandy bel oltre la metà del noto, corposo libro, il Nostro si arrovella dentro un tourbillion di quesiti estetici assai saggi del tipo: come scrivere, quali personaggi scegliere, come impostare la trama, come iniziare…, senza fornire risposta alcuna. Da par suo, menando il can per l’aia approda ad un punto fisso: “prediligere caratteri dai tratti universali, superando così barriere di tempi, regni e parlate”. Preso in parola, fulmineo scodella a ripetizione boutade che contemplano Lucia Mondella pronta a visitare Karl Marx in quel di Londra, oppure Molly Bloom, giustamente, fa una capatina a Vienna per consultarsi con Freud, mentre le sadiane Justine e Juliette si trasformano nelle gemelle Kessler adorate da Don Chisciotte e dal suo scudiero Sancho Panza. In simile contesto, ogni trama diviene superflua, un effluvio incessante e stucchevole da anarchico flusso di coscienza, appoggiandosi come puntello teorico al genio metanarrativo di Petrolini, “scopone / spariglio i sette / compro le scarpe / mi vanno strette / se qualche volta in festa io ballo / la mia compagna mi pesta un callo / monto in vettura / muore il cavallo”. I personaggi sono nominali e nominati per nome e cognome, ed evocati attraverso un prezioso e certosino lavoro di citazione, per esempio, prima battuta pronunciata da Molly Blum nell’opera di James Joyce Ulisse, 1922, oppure prime battute pronunciate rispettivamente da Justine e Juliette nell’opera di D.A.F. De Sade La nuova Justine ovvero le disgrazie della virtú, 1791, e ancora la prima battuta pronunciata da Lucia Mondella nell’opera di Alessandro Manzoni I promessi sposi, 1827. Se tanto mi dà tanto, vanno annotate anche le ultime parole pronunciate dal Mostro in Frankenstein di Mary Shelley, le ultime parole pronunciate da Don Chisciotte nell’opera omonima di Miguel Cervantes e le ultime parole pronunciate da Cosini ne La coscienza di Zeno di Italo Svevo.

Un collage di scritture dove il citazionismo esasperato si confonde con quella del testo stesso, se non ci fossero le note a specificarlo, nessuno si accorgerebbe delle diverse provenienze dei materiali letterari adottati.

A questo punto, ogni accadimento è possibile, l’unica certezza è che siamo di fronte a film senza avere a che fare con film, e forse questa è la vera maniera per sognare e realizzare l’impossibile, ad esempio, la Lady Roxana del Daniel Defoe va in sposa a quell’impotente dichiarato del bell’Antonio (Vitaliano Brancati); oppure s’insegue l’utopia del cambiamento radicale, “il movente del governo popolare nella Rivoluzione è la Virtù. E il Terrore è giustizia pronta ed inflessibile nel sangue, esso è dunque emanazione della Virtù”, così Robespierre nel 1793 circa i principi del governo rivoluzionario.

La parte più accattivante, come sempre succede in opere di questo genere, va colta nel linguaggio, qui nel ruolo di un vero ascensore, in gran spolvero dall’aulico al volgare. “La svelta e la lenta: modi gergali per definire, rispettivamente, la cocaina e l’eroina”, tanto per intenderci, avanzando per freddure, che so tornar comodo soprattutto nell’estati roventi, “se l’ozio fosse disciplina sportiva, vincerei l’oro alle Olimpiadi” azzeccato autoritratto dell’autore. La comicità è il fil rouge che attraversa tutta l’opera, si consulti il cruciverba a luci rosse, “ 13 or. Virili condanne [Pene], 10 or. Resurrezione della carne [Erezione], 28 or. In due per un bacino [Cosce].

C’è una battuta di Totò nel film I due orfanelli, 1947, dove il comico parte-nopeo e parte-napoletano, dopo aver ammesso sotto tortura molte incredibili colpe, ne confessa anche una che ritiene gravissima: la scoperta dell’America, e proprio in America, esattamente a New York, termina una dei più bei film di Luis Buñuel Simon del deserto, 1966, la cui ultima battuta la pronuncia il demonio sotto le spoglie di un’avvenente signora bionda, rivolta a Simon, non più eremita ma seduto a sorseggiare un drink in una rumorosa discoteca di Manhattan, “è la vita ubriacone devi sopportarla ! Devi sopportarla fino in fondo!”.

 

Armando Adolgiso, Film senza film, romanzo, Viterbo, Stampa Alternativa, 1986.

 

27 febbraio 2023

Le Pennellate dei Pittori Profeti

 

“Alberi altissimi, chiome fitte, ci impediscono di vedere lo scorrere delle nubi. Sul terreno l’intrico è tale che il procedere è difficoltoso”, al punto che le Tre Bacche di Rovo non solo non compaiono mai, ma dobbiamo andarcele a cercare noi stessi attraverso una lettura paziente, lenta e circospetta dell’intero volume. Senza neppure un sottotitolo un lettore sprovveduto e superficiale potrebbe pensare ad un trattato sulla flora carsica, visto che spesso si è attratti in libreria da copertine accattivanti che tanto promettono e poi non mantengono. A lettura ultimata le tre esili bacche si prestano a molteplici interpretazioni, di certo servono all’autore come miccia, come input, come vettore per delineare un ricchissimo, dotto excursus diacronico sullo stato dell’arte partendo dall’Ottocento fino ad oggi, infilando con logica ferrea un’inarrestabile sequela di ragionamenti che ne denunciano il degrado se non la deriva.

Dove si annidano queste tre esili bacche? Anzitutto dentro un’arte contemporanea ritenuta dai più incomprensibile: il Nostro si infervora e subito si adopera per convenire che è sempre stato così, posto come premessa che ci si ponga nel côté sperimentale od innovativo, (non tutti sono stati dei Jacques-Louis David le cui opere incontravano il favore di ogni stagione ideologica monarchici o giacobini o republicani che fossero). A ragione ci ricorda che Degas, Seurat, gli stessi Van Gogh e Gauguin, al di là del loro sostanziale isolamento esistenziale, non solo vennero rifiutati dalla società e dai vari Salon, ma neppure considerati come pittori, anzi furono ridicolizzati senza ottenere alcun riconoscimento in vita. Nemo propheta in patria.

Poi ci sarebbe da discutere sul perché, soprattutto nel caso di Gauguin, si voglia essere accettati da una società che si disprezza e si rifiuta in toto, ma questo mi porterebbe fuori dal seminato. Se è sempre stato così, allora non ha senso alzare oggi ingiustificati lamenti. È però un dato di fatto che storie video di novanta minuti possano essere ridotte a cinque con risultati molto più convincenti, e ancora, purtroppo capita di scontrarsi andando per gallerie e musei contro quell’enfasi, quel fuori luogo, quell’extra strong che genera solo noia. Altresì, dove trovare l’antidoto a quelle montagne di immagini patinate o digitali che durano il battito di una farfalla prima di trasformarsi da epigonismo gratuito in cenere dopo aver soddisfatto narcisisticamente solo e soltanto il supposto artista di turno? Le Tre Bacche di Rovo accennano ad una possibile soluzione, fatta di un ritorno ai sentimenti, amore e amicizia su tutti, oltre all’occhio e al cervello, il cuore, anche se onestamente io non vedo possibile nessuna catarsi in una società come quella attuale pullulante di cinici predatori e di tanti invisibili Grandi Fratelli.

E tessono, sempre le Tre Bacche di Rovo in azione, l’elogio indiscusso della irriducibilità, vero cavallo di battaglia del quartetto già citato cui va aggiunto Paul Cézanne. Se non avessero lottato contro tutto e tutti, l’arte contemporanea avrebbe preso un’altra piega. Questo vuol dire che è necessario estraniarsi dal tessuto sociale, ignorare il diniego e lo sberleffo cui si è sottoposti e seguire solo e soltanto la fiamma ardente della propria ossessione. Meglio se autodidatti, ammiccano ancore le bacche. Quanti sedicenti poeti, «blasonati interpreti» occupanti prestigiosi scranni accademici sbandierano, ahinoi, una mediocre se non scadente scrittura! Mentre figure che si sono tenute lontano dalle istituzioni hanno fatto la storia della letteratura.

Indubbiamente la conoscenza dei materiali e soprattutto lo studio degli strumenti ha svolto un ruolo chiave non solo in architettura ma anche in arte. Viene fatta risalire ad Alighiero Boetti, qui il Nostro si dimostra di manica larga, l’apertura alle manovalanze, tessili nel caso specifico, che eseguivano l’opera. Al posto della manualità creativa s’introduce la ripetitività. A ben vedere si tratta, invece, di carenze strutturali nel produrre i manufatti e quindi si scivola inevitabilmente nella pura delega. Il pittore che ricalca un disegno, un artista che si limita al bozzetto rinunciando ad eseguirlo di persona, eleva al rango di artista quell’artigiano chiamato a realizzarlo. Io ho sempre pensato e penso che la tecnologia vada compresa e piegata ai propri fini. Per questo deve essere studiata per non subirla. E così dovrebbe essere per qualsiasi altra tipologia tecnica. Può darsi che un artista possa concedersi il lusso di ignorare la carpenteria, i relais dei trasformatori per l’accensione dei neon o le modanature dei profilati, ma a quel punto l’esito finale va condiviso con chi quelle manualità le ha per competenza.

Secondo Gadda sono “i fatti minimi che fanno grande un artista”, guardando Déjeuner sur l’herbe di Édouard Manet l’elemento minimo per eccellenza, oltre al cesto di vimini è un uccellino in volo, il Nostro, in ossequio all’ingegnere innovatore del romanzo, chiosa “probabilmente un lucherino maschio, un passeriforme della famiglia Fringillidae) [sic]. Se il linguaggio è “il più pericoloso di tutti i beni” (Hölderlin), il rischio d’impiegarlo va ugualmente corso usandolo ad oltranza, chissà anche distruggendolo e forse in questa maniera, lo si rigenera. Certo, il linguaggio anticipa i tempi, a volte “li tradisce e si tradisce” ma non è detto che venendo meno il significato il significante non illumini di più la temuta oscurità. Mai temere l’avanguardia, mai nelle melme della retroguardia!

 

Roberto Vidali, Tre Bacche di Rovo, Trieste, Juliet Editrice, 2022.

 

20 febbraio 2023

La Voce Regina la Voce dei Poeti

 

La Voce Regina riapre i battenti dopo un periodo di forzata chiusura, e lo fa in grande stile raddoppiando l’offerta della voce dei poeti. Un consistente ampliamento sia della sezione storica (Voce Regina 1) dedicata alla poesia sonora sia quella della grande stagione della poesia ispano-americana (Voce Regina 3) è stato effettuato per volere dell’Amministrazione Comunale di Bologna che da questo momento in avanti prende in carico l’archivio come patrimonio da salvaguardare in pianta stabile. Oltre al nuovo look dell’interfaccia creato da Chialab, la vera novità consiste nell’apertura in rete da parte di molti poemi archiviati, il fruitore pertanto può ascoltare la voce di poeti direttamente sul suo computer o tramite cellulare. Il restante invece va fruito in loco recandosi nella storica sede allestita nella Biblioteca Sala Borsa, in alcuni Dipartimenti della Università di Bologna e nel breve in tutte le biblioteche dell’area metropolitana del bolognese.

È motivo di grande soddisfazione non solo constatare il salvataggio di un materiale che essendo stato registrato in maniera analogica stava per deperire inesorabilmente ma anche vederlo collocato nella sua nuova veste digitalizzata dentro meritorie istituzioni.

La realizzazione di questo ambizioso piano inizia per volontà dell’allora assessore alla cultura Angelo Guglielmi che ha fortemente voluto nel 2006 allestire il primo nucleo della Voce Regina, quello relativo alla poesia sonora perché apprezzava la validità di questo tipo di sperimentazione. “Non ci si rende mai bastevolmente conto – era solito ribadire – di quanto sia importante anzi utile (straordinariamente utile) disporre di registrazioni di testi poetici interpretati dagli stessi autori. Non si tratta soltanto del piacere di possedere un documento di gran pregio che consente come di riportare in vita poeti scomparsi o comunque di risentirne la voce come se fossero ancora presenti. L’importanza va molto al di là della suggestione di una vita ritrovata. E questo vale soprattutto in maniera particolare per i testi della poesia contemporanea”.

Più che un programma una vera dichiarazione d’intenti che abbiamo cercato (il noi si estende al mio sodale nonché amico Roberto Pasquali) di sostenere in tutti questi anni mantenendo fede ai suoi dettami. Ricordo ancora quando gli presentammo il progetto per la prima volta, Guglielmi rimase da subito ben impressionato “perché – ci tenne a precisare – mi interessa costruire qualcosa che non c’è!”.

In questo revival di ringraziamenti, al di là degli sponsor bancari che ne hanno consentito la messa in opera, vanno menzionate due figure che hanno collaborato attivamente affinché la Voce Regina corresse rapida lungo i binari giusti, Gian Mario Anselmi e Niva Lorenzini e tutto il Dipartimento di Italianistica dell’Università.

Sin dagli inizi della nostra carriera, ci ha sempre accompagnato un desiderio di raccogliere materiali, di collezionare prodotti d’arte, l’Archivio 3ViTre di Polipoesia nasce quindi nei primi anni Ottanta con lo scopo di promuovere, archiviare e documentare il variegato mondo della sperimentazione poetica, (poesia visiva, poesia visuale, poesia fonetica, poesia sonora, videopoesia).

La triplice V deriva da un catalogo edito nel 1982 Visioni Violazioni Vivisezioni segni & suoni della poesia contemporanea, mentre il termine Polipoesia risale alla mia teoria, tesa alla definizione, in termine critici, della performance di poesia sonora, infatti nel 1987 esce il Manifesto della Polipoesia, nel catalogo Tramesa d’Art, Valencia.

Oltre 500 ore di poesia sonora, circa 200 ore di videopoesia, un migliaio di originali di poesia visuale, una ventina di carteggi storici con i protagonisti dell’avanguardia internazionale, questi in breve i numeri dell’Archivio. Numerose manifestazioni sono state organizzate, da citare almeno i Festival di Poesia Sonora e  il VideoSound Poetry Festival. In veste di editore l’Archivio ha prodotto oltre una ventina di dischi in vinile sia a 45 giri che in LP, vari Cd e CDRom.

 

La Voce Regina, vernissage 10 febbraio 2023, ore 18, Sala Conferenze di Biblioteca Sala Borsa, Bologna.

 

24 gennaio 2023

Tutte le arti tendono alla performance

 

Il titolo ricalca quello di una fortunata rassegna bolognese della fine degli anni Settanta, primi Ottanta, che a sua volta parafrasava un famoso aforisma di Walter Pater «tutte le arti tendono alla musica». Era quello un periodo indubbiamente ricco di stimoli, al contrario di chi pensa e svilisca gli Ottanta come «anni di merda». Per esempio non si può passare sotto silenzio l’avvento dei nuovi media, l’affermazione  del movimento femminista, la messa in auge dei centri alternativi, il boom delle droghe leggere, il viaggiare come esperienza di vita, l’inizio della perestrojka e la performance, ora intesa nel suo significato più ampio, faceva parte integrante in pianta stabile di quella fioritura. A monte, forse bisogna chiederci perché proprio la performance?

Bruce Nauman durante una recente presentazione alla Punta della Dogana a Venezia ha dichiarato senza tanti mezzi termini di aver scelto il corpo come mezzo di indagine e di ricerca perché non gli costava nulla in quanto lo aveva gratis. Può essere una risposta plausibile senza mettere sul piatto della bilancia l’altissimo peso che ha il narcisismo degli artisti.

La ragione principe di quella esplosione sin dai Sessanta va individuata nella presa di coscienza del proprio corpo nella sua integralità, si va dalla «masturbazione» di Vito Acconci, il famoso Seedbed del 1972 al notissimo Imponderabilia del duo Abramovic-Ulay nel 1977, da Vista zero di Tomaso Binga (1972) al Consumarsi di Libera Mazzoleni, dieci anni dopo. Il corpo è pertanto il perno attorno al quale tutto il poliedrico mondo della performance ruota, al di là delle etichette e delle definizioni. E per corpo, lo ribadisco, è da intendersi ogni parte di esso, voce inclusa.

Fiumalbo, un paesino dell’Appennino modenese quasi a ridosso del confine toscano, ospitò nel 1967 una delle primissime manifestazioni pubbliche off, furono parecchi gli artisti ad optare per azioni aventi l’oralità come protagonista.

E quest’aspetto non va affatto sottovalutato perché spesso la body art è silente e la performance d’arte ricorre al linguaggio in termini esplicativi raramente creativi.

Nell’esposizione curata dalla coppia Lara Conte-Francesca Gallo, la sperimentazione orale non viene messa in second’ordine, anzi viene citata all’uopo la benemerita Baobab, rivista di informazioni fonetiche edita dal compianto Ivano Burani senza dimenticare Fonosfera l’encomiabile programma di Rai Radio Uno diretto da Pinotto Fava ed Armando Adolgiso.

È sicuramente vero, come era solito affermare Beuys, che per comprendere il significato di una performance la si doveva compiere, il che sottintende che non esista un canovaccio prestabilito, una traccia certa da seguire, a dirla tutta un libero omaggio alla casualità del momento.

La prova del nove del riscontro dal vivo vale anche per chi ha una concezione più progettuale e meno istintiva della performance, la cui validità se non efficacia deve essere sempre verificata nel confronto-scambio tra pubblico e performer.

Mi riferisco a quell’atto unico ed irripetibile che è l’azione in sé con un emittente-attore e un ricevente-audience. Questo momento comporta valori di comunicazione e simbiosi percettiva che a volte travalicano i confini della performance stessa. Ed è proprio questo il fil rouge che accomuna tutte le esperienze documentate in mostra, più o meno dichiaratamente esse mirano a questo «oltre», verso l’al di là del puro contingente, in questo senso la performance risulta essere un pretesto per assurgere stabilmente dentro un contesto più duraturo, starei quasi per scrivere eterno. Infatti dopo oltre mezzo secolo da quando sono state ideate e realizzate sono in grado ancora di reggere la giusta tensione ed attirare attenzione e interesse.

L’esibizione romana del MAXXI ha l’indiscusso merito di aver selezionato 95 artisti come teste di serie per altrettante tipologie di performance, per cui il visitatore nell’enorme spazio dell’archive wall  ha la possibilità attraverso documenti, fotografie, video e testimonianze orali di passare in rassegna tutto quanto è successo in quel lasso di tempo cruciale per lo sviluppo della performance.

 

Territori della performance: percorsi e pratiche in Italia (1967-1982) a cura di Lara Conte e Francesca Gallo, MAXXI, Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo, Roma, 20 ottobre 2022-28 maggio 2023.

 

16 novembre 2022