Distici Distanti

“considerava la letteratura universale come materiale da utilizzare”

J.P.Sartre [Le Parole, Milano, Il Saggiatore, 2002, p.48]

Di questi versi si può dire ciò che Samuel Johnson scriveva di John Donne nel 1777, “versi da sostenere meglio la prova delle dita che quella dell’orecchio”, così ricorda Giorgio Melchiori [mio illustre docente quando ero studente a Cà Foscari, Venezia, primi anni Settanta] nella prefazione a John Donne, [Liriche sacre e profane, Milano, Mondadori, 1983, p. LXVI]. Non va tuttavia sottaciuto che l’orecchio qui non viene del tutto trascurato, a cominciare dalla rima che racchiude foneticamente tutti i distici, per finire con gl’incastri sonori che si rincorrono all’interno dei versi.

La loro lunghezza non è volutamente definita, varia e spazia sul bianco del foglio secondo l’esigenza metrica del singolo componimento, mantenendo come punto fermo la stessa numerazione sillabica per ambo i versi di ogni distico.

Può darsi che la ricerca spasmodica della parola giusta al posto giusto, mi abbia spinto fin sulla soglia di un trobar clus. Ho cercato di fermarmi in tempo per lasciare affiorare tutte quelle tematiche universali che appartengono al nostro vivere e qui affrontate senza indecisione alcuna.

Ricercare una pulizia lessicale e al tempo stesso un ostinato ampliamento del parco-parole, raschiando, a volte, il fondo del barile della lingua italiana, è stata una delle sfide più appassionanti durante la compilazione di questi testi.

Inutile aggiungere che nelle ristrettezze sia spaziali che sillabali del distico la parola venga scelta in virtù dei suoi propri plurimi valori. Senza voler stilare delle graduatorie d’importanza, la parola, per riprendere un punto del mio Manifesto della Polipoesia (Valencia, 1987), deve essere multiparola, ovvero in grado di agganciarsi al già scritto, suggerire altro e soprattutto inserirsi con coerenza millimetrica nel tessuto poetico, sia come significante che come significato.

Il distico di per sé invita alla stringatezza, per questo ho cercato di bandire il superfluo, il fronzolo e concentrarmi, questo è proprio  il verbo più consono, sull’essenza testuale senza rinunciare “a bilanciarmi sull’ambiguo gioco della parola” come sentenziava il Gian Pietro Lucini delle Revolverate.

Se Stendhal suggeriva di partire da un fatto di giornata, io ho optato invece, come punto di partenza, per la parola stessa, come aveva già detto e fatto Raymond Roussel. In ogni distico la scintilla ispirante viene provocata da quella inesauribile musa che appare sotto forma di parola ad hoc, tale parola resta la guida e il fine del distico stesso.

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Enzo Minarelli
gaspare.palmeri@raizen.it