Il Blog di Enzo Minarelli

Blaine! Blaine! Blaine!

 

Bang! Bang! Bang! Un triplice bang contro la Poesia intesa come lamento, frustrazione, lagna o compenso esistenziale, contro la Politica intesa come il macronismo o l’estrema destra, contro l’Arte arrivista e mercantile. Questo Tomo V (gli altri quattro sono usciti dal 2013 a cadenza biennale) è all’insegna della diversità, lo dichiara lo stesso Blaine nella prefazione, «imagine que ce livre soit un livre normal», perché in realtà non lo è. Si tratta del tentativo di differenziarsi da quella massa di libri che ripetono sempre la stessa cosa, di « livre le livre» o meglio, come suggeriva il compianto Philippe Castellin, di «dé-livre», facendo sì che il libro assuma una nuova funzione sia creatrice che di contro informazione.

Impossibile incasellare la sua mastodontica produzione che copre la seconda metà del Novecento e si estende prolifica fino ad oggi. Il mio amico newyorchese Richie Kostelanetz negli anni Settanta ha coniato il termine di polyartist, potrebbe essere nel nostro caso una definizione giusta nel senso che Julien ha sperimentato tutti i mezzi possibili senza un attimo di tregua, però non rende giustizia a quella che è la sua caratteristica principe, una raffinata ricerca linguistica che lo connota a prima vista e che emerge imponente anche da questo volume. Si muove con l’agilità del funambolo tra calembour ed i sottili ma esilaranti trucchi della retorica. Se il metodo è «D’abord parler avec la bouche/parler avec la langue/…puis écrire avec la bouche/écrire avec la langue», lo scopo allora si concentra su «sang/cent/sens/sans», quindi «cent sens sans sens».

Questo è, volenti nolenti, il paradosso della poesia, sviluppare molteplici significati, per poi infilarsi nelle contraddizioni del linguaggio, evidenziando minimi spostamenti fonetici tra orage ed orange, cocasse e coasse, je me tus et je me tue, oppure contrasti cromatici come avviene tra noire ed ivoire.

Scorre davanti ai nostri occhi tutta la caleidoscopica attività blainiana ricca di suggestioni argute e note autobiografiche, ne estrapolo alcune che rendono a tutto tondo l’anima veritiera dell’artista attento osservatore della realtà circostante. Per esempio, riporta due fotografie, una del suo pugno chiuso, l’altra con la mano aperta, la pelle nel primo caso, nonostante l’età allude a «l’illusion de la jeunesse » mentre nel secondo si rivela per quello che è, rugosa, maculata, invecchiata, il che rimanda direttamente all’importanza del gesto per quanto minimo esso sia.

Lo spirito anarchiste affiora in Made in France dove i bracci di una svastica contengono i nomi Zemmour e Le Pen (vedi le recenti elezioni francesi), e sul gagliardetto della police nationale quando vi imprime la scritta SUICIDEZ VOU. Incarna altresì le vesti del provocatore, a giusta causa a mio avviso, quando confronta l’Arco di Trionfo incartato da Christo con l’intervento di un anonimo gilet jaune sullo stesso movimento parigino chiedendoci quale sia il migliore.

Julien con la sua opus magnus si erge a nitido punto di riferimento sia poetico che organizzativo per tutta la comunità della sperimentazione internazionale. Ricordo molto bene il nostro primo incontro sul finire dei Settanta, a Verona in occasione dell’ennesimo evento organizzato dal sodale e amico fraterno Sarenco. Mi colpì la semplicità della persona e nel contempo la profondità, poche parole ma sempre ben mirate e ponderate. E penso che questo rigore espositivo sia la sua dote migliore anche in performance. Tutte le volte che l’ho visto performare, resta impresso nella mente di chi lo guarda quel senso di essenzialità, dove nulla va sprecato né improvvisato, arricchito da una senso clownesco della spettacolarità, talora ricorrente al nudo integrale come sberleffo o schiaffo verso il perbenismo pruriginoso, talvolta teso verso il rischio di farsi male quando nella serie denominata La chute, decideva di lanciarsi giù in estremo spregio di pericolo per ripide scalinate o gettarsi dall’alto di tavoli accatastati sul palcoscenico. Infine, approdo alla sua voce, al suo vocione potente che diviene piena corporalità, un terzo braccio che gli consente di catalizzare sulla scena l’attenzione del pubblico. Qui è anche poeta sonoro in virtù del fatto che assegna alla vocalità un ruolo decisamente fondamentale, non caso è antologizzato in riviste come Baobab o archivi come La Voce Regina e in molte altri CD o vinili. Resta, in conclusione, la sonorità sia essa scritta che orale la chiave per aprirci il cuore tecnologico di un indiscusso protagonista della poesia internazionale contemporanea:

ce son est celui de mon corps ou celui de cet espace

c’est un son de nature : voix viande &c,

ou un son d’artifice : muisique, bruits &c.

 

Julien Blaine Le Tome V 2021, Dijon, Le presses du réel, coll. Al Dante, 2022.

 

10 maggio 2022

Hurrah for Hyperart

 

Nei credits compare il termine songs  e non poemi, il che vuol dire che Hyperart, nelle intenzioni dell’autore, va ascritto all’ambito musicale, generalmente inteso, intendendo per musica un’aura discretamente eufonica, in quanto il nostro orecchio viene blandito da rarefazioni prolungate ed equilibrate, per niente assillanti né provocanti. Traspare molto dolcezza dai brani, una mano morbida e tenera sembra accarezzare l’aria. Vediamoli nel dettaglio.

In Aerosol Gnosis il ritmo sonoro è rapportato ad una rumoristica organizzata come antagonista all’armonia creata, a tratti essa prevale nettamente.

Il pezzo sembra suggerire che la vera gnosi è raggiungibile solo attraverso adeguate sonorità, per cui il noto incipit biblico “in principio era il verbo” dovrebbe essere sostituito con “in principio era il suono”, in questo Thomas Bey W. Bailey collima con l’esoterismo egiziano.

Come lui stesso dichiara nel risvolto di copertina del CD, la sua Hyperart non serve a nulla, o quanto meno non assolve a nessun dichiarato scopo, ammesso che l’arte contemporanea ne abbia qualcuno. Forte di questo nichilistico assunto, e sgravato da responsabilità contenutistiche, può liberamente lanciarsi nel campo aperto della più pura sperimentazione, dove tutto diventa paradossalmente più difficile e complicato se non ci si appoggia ad una elevata sensibilità acustica, e, direi, su un sapiente dominio dell’apparato tecnologico, doti che il Nostro, per fortuna possiede ampiamente. Non è detto che un oggetto dichiaratamente inutile, vedi Designer Nihilims, possa servire a qualcosa. Ascoltando e riascoltandolo, sembra di viaggiare attraverso le galassie al di fuori del tempo e di ogni stato emotivo.

In Impasse of the Three Faces fanno capolino per la prima volta brandelli vocali, veramente minimi, solo accennati. Appena affiorano come tali scompaiono, mi sovviene il paragone con certi affreschi romani conservati per secoli nel sottosuolo dell’Urbe, appena vedevano la luce provocata dalle scavatrici, venivano risucchiati via dalle correnti d’aria.

Viene ribadito il superfluo uso della lingua, alleandosi con le riduzioni più spinte della poesia sonora, penso ad Henri Chopin che considerava la parola come il vero cancro della comunicazione.

In tale landa desolata, la fanno da padrone le inventive ritmiche che il Nostro non si stanca di perseguire, quasi prendendoci per mano a guidarci in questa terra di nessuno dove tutto sembra distrutto. In realtà dalle macerie, sa consapevolmente estrarre convincenti impalcature che lo proiettano talora in una zona tra la musica concreta e il rumore bianco, operando sempre con una mano ferma dove nulla gli sfugge. Quando sopra scrivevo che tutto diventa più difficile, intendevo proprio questo, tutto deve essere perfettamente sotto il controllo del musicista in questo caso programmatore.

Nel booklet che accompagna il CD, il Nostro fornisce anche immagini create ad hoc per ogni pezzo, la visione grafica di Insect Ghosts in Button Boots è data dagli insetti sotto forma di fantasmi, dislocati lungo un pendio sabbioso che richiama la luna, delimitati da una ghiera intesa come un confine da non oltrepassare. Qui compare il parlato, quasi incomprensibile come già enunciato, ma usato alla stregua di un tono musicale, nulla più, nulla meno.

Infine, Marshes in Which Only Dreams Can Survive, sta ad indicare che anche nella palude più acquitrinosa i sogni possono sopravvivere. È il brano più naturale, se mi si passa il termine, in questo contesto altamente elettronico. Il continuo trillar dei grilli accoppiato con il costante gracidare di rane ci ricorda il valore della natura in via di estinzione, sopraffatta da incombenti raffiche di lampi e tempeste in agguato. Suoni minimali ma vitali, suoni che simboleggiano il pulsare della vita, evidente anche nel pantano.

Finché c’è suono, c’è speranza!

 

Thomasson Bey William Bailey, Hyperart, CD, 2022.

 

5 aprile 2022

Endre Szkárosi

in memoriam 1952-2022

 

Qualche giorno fa Endre, improvvisamente se ne è andato. La notizia mi è giunta direttamente da Budapest da un comune amico, anche lui come me esterrefatto dall’evento del tutto inaspettato. L’avevo sentito pochi mesi fa, gli avevo chiesto dei poemi per una riedizione dei miei vinili 3ViTre, e lui come sempre puntuale e preciso mi aveva risposto nel giro di qualche giorno. Nulla lasciava presagire simile tragedia.

Adesso mi si affollano alla mente decine di ricordi condivisi dove lo rivedo forte e gagliardo con quella grana di voce grossa che lo imponeva decisamente all’attenzione. Ai primi Novanta organizzò un Polypoetry Festival tra Budapest e  Szeged, sensibile com’era alle novità introdotte dal mio manifesto, in quell’occasione si cementò tra noi un buon sodalizio al punto che due anni dopo, nel settembre del 1994, fummo invitati entrambi ad inaugurare una mostra di Max Bense Wort für Wort presso la Biblioteca di Stoccarda, ricordo che il titolo della serata venne scelto da lui stesso Twin voices, a polypoetical event. In effetti ci alternammo sul palco come due gemelli legati al filo doppio della nostra voce.

Sicuramente il punto più alto della nostra più che decennale collaborazione resta l’LP Suonmania Hangmania per la cronaca il n.6 della serie 3ViTre PAIR, 1992, dove il suo lavoro sonoro in collaborazione con il gruppo Konnektor occupava un’intera facciata.

Se invece devo scegliere una sua performance live, mi è rimasta impressa un’incredibile esecuzione della Ursonate di Schwitters allestita con un’altra formidabile performer ungherese, Katalin Ladik. Commentando la performance con Giorgio Pressburger, allora emerito direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Budapest, (fu lui stesso che mi aveva invitato per un giro di conferenze), l’aggettivo più ricorrente fu proprio eccezionale. Endre oltrepassava le righe del normale, non soltanto in virtù delle sue doti vocaliche, indiscusse e travolgenti, ma anche per gli allestimenti visivi, prestava grandissima attenzione agli oggetti di scena, anche agli abiti.

Certo, quella sua lunghissima treccia rossa che gli arrivava fino in fondo alla schiena, contribuiva a creare un’ieratica figura dal sicuro effetto ed impatto sul pubblico come avvenne, per esempio, quando recitò come attore in una videoclip di Miklós Jancsó.

Trascrivo le note che lo riguardano per la riedizione dei mie vinili, non avrei mai immaginato che non le avrebbe lette! Grazie Endre!

“Il lavoro di Endre Szkárosi si presta a stabilire la differenza tra un polipoema, un poema sonoro ed una canzone. In quest’ultimo caso, la musica ha sempre una netta predominanza sul cantato. Mi piace citare all’uopo I zimbra dei Talking Heads musicata da Byrne ed Eno, nel 1979, ebbene quella canzone ripropone un testo classico nonsense di Hugo Ball che nessuno riconosce perché sopraffatto dalla grandezza della musica, al limite, qualsiasi testo sarebbe destinato a soccombere davanti alle avvincenti melodie di quel duo.

In Endre compare la musica in tutti i suoi leciti attributi, una marcetta popolare con un basso rock più altre inserzioni strumentali. Endre non canta, semplicemente si imposta per storpiare secondo i dettami della casistica sonora il tema dei giorni orribili introdotto dai suddetti  riferimenti musicali, da vocaboli come pestilence, decay in the fields of your land, iron hand, da aggettivi tipo sad, in ascesa con distorsioni e tragedia incombente.

Ha modo di dispiegare a piena gola tutta la potenzialità vocale, da un pianissimo ad un fortissimo che stordisce il nostro orecchio. Quando si ode uno scoppiettio di tromba, sembra il segnale per abbandonare la calma e salire, salire di tono, sempre più su, fino ad un urlato che rasenta il disperato appello sull’orrore circostante. Quindi accanto ad una musica contenuta, una declamazione testuale fa leva sugli alti e bassi dell’intonazione per sviarne il significato che va invece captato nell’aura totale del brano. Si concede un finale da allarme sociale, stranamente comprensibile dopo tanta saturazione fonica tesa verso lo spaesamento, worry is always on.” Sempre all’ordine del giorno preoccuparsi!

 

26 marzo 2022

Chi ha paura di Patrizia Vicinelli?

 

Non sorprenda questo parallelo tra Giordano Bruno e Patrizia Vicinelli, entrambi irregolari, geniali a loro modo e incompresi, ma capaci di lasciare un segno profondo attraverso le rispettive, irripetibili carriere. Lo stesso Bruno, sia detto per inciso, era stato anche poeta, poeta rigorosamente ermetico sotto i provvidenziali influssi cabalistici. Patrizia ha un modulo operante più aperto perché sente il bisogno di comunicare, di esternare la ricchezza interiore, di aprirsi, appunto, verso il mondo esterno affinché esso entri in contatto con il suo. Ci sono in mostra due Carte astrologiche, non datate, purtroppo, che riproducono l’oroscopo rapportato ai segni zodiacali, mi ricordano pari pari le figure geometriche impiegate dal filosofo nolano per carpire i segreti divini attraverso la facoltà dell’immaginazione.

Ci son voluti trent’anni (Duchamp ne indicava almeno quaranta, necessari per capire un artista dopo la sua scomparsa) dalla sua morte, avvenuta a Bologna nel gennaio del 1991, prima che una benemerita istituzione (lode quindi al MACRO di Roma) si accorgesse del suo poliedrico lavoro messo in mostra per la prima volta in modo organico e completo.

Il visitatore che si appresta a visitarla deve essere paziente ed esibire disponibilità per entrare in punta di piedi nel caleidoscopico laboratorio di Patrizia. Si parte dalla parola scritta attraverso una stesura solida e sintetica il cui massimo pregio è l’autenticità, una freschezza immediata che arriva pura e diretta alla mente del lettore, qualsiasi sia il tema affrontato, a me ha colpito la metafora dell’albero dove Patrizia s’identifica nel topolino in cerca di pace e serenità: “Ai piedi dell’albero, proprio sotto il primo strato di terra, ci sono le grosse radici. Fra queste, si creano spazi vuoti, larghi buchi dove si può vivere comodamente: lì non c’è freddo e non c’è caldo, in ogni stagione si sta ben riparati” (da Il grattacielo albero). È il particolare che diviene assoluto, il dettaglio che assume valenza universale.

Accanto alla scrittura, ben documentato nella bianca sala espositiva, anche l’aspetto performativo che le consentiva di dar libero sfogo a quella voce, dolcemente rauca che la connotava da sempre. Anche in performance si affidava al potere taumaturgico della parola che sapeva indirizzare nei modi e nei tempi giusti. Ricordo una delle sue ultime performance presso i Musei Civici di Reggio Emilia, nell’estate del 1989 quando Ivano Burani organizzò una kermesse di poeti sonori per ricordare l’appena scomparso Adriano Spatola, Patrizia eseguì un’indimenticabile estratto da Il trionfo del metadestino. La scrittura non tollera inganni, ma ancora meno la performance, davanti ad un pubblico il poeta deve essere tale a tutto tondo, è un’infallibile cartina di tornasole e Patrizia era perfettamente a suo agio quando poteva coniugare la sua corporalità con l’oralità. Non a caso, la cara amica e sodale di mille imprese, Daniela Rossi spesso le chiedeva di presentare i suoi festival.

Ho conosciuto Patrizia nei primi anni Ottanta grazie ad Armando Adolgiso, allora valente capostruttura di Rai Radio Uno, credo alla GAM di Bologna dove presentava in anteprima un mio lavoro sonoro. Ho vari ricordi di lei, ma scelgo il seguente perché emblematico: ci ritrovammo a Ravenna in un party privato entrambi invitati da un comune amico, eravamo alla metà degli anni Ottanta, ricordo che era appena uscita l’ennesima antologia di poesia italiana, chiacchierando seduti vicini su un comodo divano, le facevo notare né lei né tanto meno io, eravamo compendiati in quel volume, e Patrizia, guardandomi fisso negli occhi, “Enzo, ricordati che è un grandissimo onore non comparire in antologie come questa!”.

 

 Aritmici/Chi ha paura di Patrizia Vicinelli, MACRO, Roma, 11 novembre 2021-27 febbraio 2022. (Materiali provenienti dall’Archivio Patrizia Vicinelli, dall’Associazione Culturale Alberto Grifi, dall’Archivio Daniela Rossi, dalla Collezione Giuseppe Garrera e dall’Archivio 3ViTre di Polipoesia)

 

23 novembre 2021

Ebraismo rima con Astrattismo

 

Il tema di quest’ultima opera di Mario Costa è lo stesso della precedente, si veda più sotto il blog dell’8 luglio 2020, do per scontato quanto colà scritto. Tuttavia giova ribadire, sintetizzando, che, documenti alla mano, l’astrattismo inteso come ismo è stato ispirato sia dal direttorio del Jewish Museum di New York come escamotage per non incappare negli strali della nota legge mosaica che bandiva l’utilizzo iconico sia dalla CIA che, finanziando a suon di quattrini fior di mostre, dimostrava come l’America, in piena guerra fredda fosse il paese della libertà, tale da permettersi un’arte che si faceva beffe del contenuto. Per certi versi l’esatto contrario dello stile “irreggimentato, tradizionale e chiuso del realismo socialista”. Può darsi che le verità siano sempre scomode, ecco una spiegazione plausibile alla caterva di improperi che sono piovuti addosso all’autore dopo l’uscita del primo volume. In realtà il Nostro, in virtù di un solidissimo approccio da studioso, non ha snocciolato una frase che non fosse debitamente sostenuta da adeguate citazioni, quindi l’accusa davvero infamante, quanto totalmente infondata, che non voglio qui riproporre, andrebbe estesa a tutta quella serie di nomi illustri che hanno puntellato la tesi di Costa, il quale, viene spontaneo pensarlo, non ha fatto altro che ratificare e rimettere in circuito dati, notizie e convincimenti già acclamati negli anni Settanta.

Una volta individuati i tre filoni base del suo studio, l’astrazione, il non-funzionale, le cose filosofiche, viene abbastanza logico farvi scorrere dentro tutta l’arte contemporanea. L’astrattismo accantona e supera l’espressionismo astratto, «penso che Jasper Johns – nelle parole di Leo Castelli – più che Rauschenberg, sia responsabile della fine dell’espressionismo astratto », mentre l’arte tecnologica finalmente scrollatosi di dosso la zavorra professorale degli ingegneri veleggia verso l’allestimento di software, programmi di idee, distruggendo in questo modo l’oggetto tradizionale dell’arte e con esso le assodate ed abitudinarie aspettative del pubblico.

Infine il concettuale, lungi dall’essere una forma astratta, filosofeggia su concetti astratti che possono anche paradossalmente non prendere forma perché ciò che conta avviene nella mente dello spettatore. L’arte concettuale esige un raffreddamento emotivo rivolgendosi più che al cuore alla ragione. Campione di questa aridità è l’artista minimalista Frank Stella, la cui dichiarazione «quello che vedete è quello che vedete» ben riassume un tipo di pittura lontano dall’intenzionalità.

Uno dei capitoli più pregnanti riguarda Allan Kaprow e la svolta performativa. Viene sapientemente inquadrato in un contesto tutto suo, originale, dove, giustamente va evidenziata la sua estraneità sia verso le operazioni casuali di John Cage che verso Maciunas. Quando ho avuto l’occasione di incontrarlo e di parlargli a lungo, (era tra il pubblico durante una mia performance all’Auditorium dell’Università di San Diego nei primissimi anni Novanta), ricordo che gli chiesi proprio del suo rapporto con l’happening di marca Fluxus, e di fatto mi rispose con lo stesso epiteto «vaffanculo» che leggo ora riportato da Costa come reazione ad una simile domanda. Effettivamente la posizione di Allan non ha nulla a che vedere con le improvvisazioni per lo più distruttive dei performer Fluxus, (farei un’eccezione al riguardo per Dick Higgins ed Eric Andersen) perché i suoi eventi, è bene ricordarlo, partendo da una riflessione sul dripping di Pollock, bandiscono la tela da imbrattare per evidenziarne il gesto, l’azione, solo che l’atto di Kaprow è rigorosamente controllato, voluto, scandito fin nei minimi particolari sotto il vigile vaglio della consapevolezza. Consapevolezza è parola chiave del suo lessico performante, non a caso compie una lungimirante e del tutto condivisibile differenza tra «arte come arte» e «vita come arte»: “gli artisti dell’«arte come arte» non cercano un significato nella vita, lo cercano nell’arte, gli artisti della «vita come arte» vivono la loro vita quotidiana con consapevolezza”.

 

Mario Costa, Ebraismo e Avanguardie, Per una genealogia dell’arte contemporanea, Salerno, Edisud, 2021. [pp.118]

 

25 ottobre 2021

Videopoesia

 

Una corposissima ed omnisciente ricerca come questa che mi accingo a chiosare era necessaria, mancava da decenni nel mercato editoriale. Per ritrovare qualcosa di simile devo andare molto indietro nel tempo, penso a L’Immagine Video di Vittorio Fagone (Feltrinelli, 1990, riedito nel 2007) oppure al possente catalogo La Coscienza Luccicante, dalla videoarte all’arte interattiva, Palazzo delle Esposizioni, Roma (1998, Gangemi), anche alle varie edizioni de L’Immagine Elettronica curate dal Centro Video Arte di Ferrara. Mentre questi eventi pur benemeriti ed esaustivi ponevano al centro della galassia video la videoarte, il poderoso volume della Sarah Tremlett, si focalizza solo e soltanto sulla poesia in video e film, come viene enunciato sin dal titolo roboante dove in chiara epanalessi il lemma poetry, a scanso di equivoci, compare più volte!

A lettura attenta ultimata si deduce subito che quando il fenomeno suddetto viene esaminato da una prospettiva estera, esteticamente valida, scompare di botto la pletora di praticanti improvvisati, sia in suolo italico che internazionale, che contrabbandavano per videopoesia un qualcosa che videopoesia non era. Per esempio, per sgomberare subito il campo da una classica topica, non si poteva spacciare per videopoesia un prodotto che come colonna sonora includeva Strauss o Prokofiev! E qui si giunge subito al nocciolo della questione, come si relaziona il suono all’immagine? È l’eterno dilemma da cui dipendono le sorti del videopoema. Bisogna fare prima un passo indietro, e distinguere come ha saggiamente operato Ong tra testo scritto frutto di una buona dose di oggettività e l’orale, la spoken word, ricca di soggettività empatica, fisicamente e psicologicamente presente. Per semplificare, la stessa differenza siderale che passa tra una poesia cosiddetta lineare (dalle linee che scorrono sotto i nostri occhi) ed una poesia sonora che non può essere letta ma solo ascoltata. Non a caso Tom Konyves in Videopoetry: a Manifesto scritto nel 2011 e consultabile in rete elenca le seguenti categorie sonore, Kinetic text, Sound text, Visual text, Performance, Cin(e)poetry, snocciolando le diverse tipologie di testo che si possono incontrare. Questa formidabile griglia non contempla la pura sonorità, ciò che io ho chiamato vocoralità (l’incontro dell’orale con il vocale), leggi, poesia sonora, dove la nozione di testo come viene intesa sopra, scompare, in questo caso occorre parlare di videopoesia sonora, videosoundpoetry, aggiungendo alla già assodata etichetta un essenziale ed ineludibile aggettivo. Sin dai primi festival organizzati presso la Sala Polivalente di Ferrara nei primissimi anni Ottanta fino a quelli operativi al DAMS dell’Università di Bologna o al Link, ho sempre tenuto fede a questo spartiacque dirimente, attirandomi anche notevoli antipatie ma credo che alla lunga la coerenza delle idee paghi, come ebbe a dire una volta Schönberg parlando di un giovane e timido Alban Berg, «il suo successo [allude al Wozzeck] fu la conseguenza di restare fedele alle sue idee» (si veda storico filmato su YouTube).

Io ho sempre pensato e continuo a pensare che il punto di partenza sia, chiamiamola così per intenderci, la colonna sonora. Marc Neys la pensa come me e dichiara impavido che il suono ricopre il 60 per cento del progetto. Siamo nettamente agli antipodi del cinema, giova ricordare che il grande Fellini obbligava gli attori a recitare numeri sul set! Però è altrettanto vero come profetizza Bian Eno che sound suggests mood. Allora bisogna cominciare a rispondere alla domanda chiave che ho formulato sopra. Come interagiscono questi due elementi, suono e immagine nella videopoesia? Dando un’occhiata alla storia, Anemic Cinema del 1926, è il primo esempio di videopoema dove Duchamp si sbizzarrisce in effetti ipnotici come suggerito dai versi del surrealista Robert Desnos. Secondo Philippe Bootz (ideatore del vocabolo Les Immatériaux, storica mostra presso il Pompidou di Parigi nel 1985) è il punto di partenza di una dynamic poetry. I pionieri della videopoesia metà anni Settanta, sembrano usare l’immagine come espansione del suono, il sound track ricopre più una funzione di commento che di novità creativa, penso ai primi lavori del tedesco Klaus Peter Dencker, o al newyorchese Richie Kostelanetz grande esploratore di poesia concreta in movimento grazie al suo Amiga ma anche al vero pioniere del settore, il lusitano Melo e Castro che è stato anche uno dei primi ad utilizzare il computer per la produzione non solo di effetti ma di digital images.

Rientrando nel politically correct, il poetry film è molto praticato da figure femminili, il che permette loro di controbilanciare lo strapotere dello sguardo al maschile perché spesso, troppo spesso c’è un maschio dietro l’obiettivo, d’altra parte nel cinema si riconosce a occhio, soprattutto nelle scene d’amore, se chi ha girato la scena è uomo o donna. Consiglio di andare a vedere Ophelia: me too (Tremlett, 2018) una serie di poetry film sul ruolo delle muse. Vi prevale lo stile ecfrastico per imprimere più forza alle tesi femministe. Ebbene, pochi sanno che l’Ophelia dipinta dal pittore pre-raffaelita John Everett Millais nel 1852 era la modella, artista e poetessa Elizabeth Siddal. Come la sfortunata protagonista della tragedia scespiriana annegata per amore, anche la Siddal fu costretta a posare in acqua fredde, contrasse una polmonite che le risulterà fatale. Naturalmente Millais non si accorse del disagio e come se nulla fosse continuò a dipingere. Allora la prossima volta che andremo alla Tate Gallery per vedere il quadro…

 

 

Sarah Tremlett, The Poetics of Poetry Film, Film Poetry, Videopoetry, Lyric Reflection, Bristol UK-Chicago USA, Intellect-The University of Chicago Press, 2021. [pp 386]

 

 

27 luglio 2021

La performance ampliata verso la vita

 

Bartolomé Ferrando, con quel suo fare da officiante ieratico, concentrato e calato nella parte del performer che ha tutti gli occhi del pubblico addosso, smette di sciogliere “nudos afónicos” (nodi afoni), un linguaggio rarefatto, sbocconcellato, una glossopoiesi ricca di non-sense, per lanciare verso noi presenti, delle note multicolorate (singolarmente ritagliate alla perfezione da cartoncini A4), come succedanei della musica. Questa sua performance risale alla seconda metà degli Anni Ottanta, si svolse nello spazio-studio di Adriano Spatola che già aveva lasciato il mitico Mulino di Bazzano per installarsi alla Cà Bianca. Naturalmente, da buon archivista conservo tuttora quelle note di carta. M’è venuto in mente questo lavoro, leggendo attentamente l’ultimo suo libro che raccoglie un’amplia serie di saggi scritti nell’arco di un trentennio, 1983-2013.

Ricordo quell’evento passato perché dimostra che ci vuole sempre un presupposto, non un pretesto, teorico per organizzare un’azione live. E non c’è dubbio che lui la possieda questa virtù che poi alla lunga è quella che fa la differenza tra una buona e cattiva performance. Quest’ultimo termine come più volte ho anch’io ribadito, è del tutto inadeguato per definire ciò di cui stiamo trattando, non a caso lui parla di azione saggiamente senza aggiungervi alcuna aggettivazione. Sarebbe un errore pensare alla poésie action di Bernard Heidsieck che però esula da questo contesto, perché per azione qui si intende qualcosa di chiara derivazione Fluxus, nella fattispecie Kaprow e Beuys e prim’ancora Schwitters. La sua azione, come quella descritta sopra, comporta referenze linguistiche assai rarefatte perché affida tutto il peso della comunicazione, all’uso del corpo, all’organizzazione dello spazio attorno, all’impiego di oggetti, come visto, accuratamente scelti, senza dimenticare la consciencia de lo asimétrico. Allestisce una messinscena para-teatrale nel senso brossiano, finalizzata verso l’essenza del frammento esibito fino al punto di una lecita insignificanza. Fluttuante, pertanto, diviene il richiamo vocale, sicuramente secondario rispetto agli aspetti indicati, l’impatto fortemente emotivo ed empatico viene soprattutto dalla miscela di gesti, grida, movimenti ed oggettistica. Ho di proposito usato il termine empatico perché in coerente assetto Fluxus, l’azione deve coinvolgere il pubblico, se non smuoverlo verso una partecipazione attiva. E qui si scontrano diverse tendenze. Nell’ultimo Festival d’Automne a Parigi, durante una manifestazione molto affollata, la conduttrice ha rivolto ad Esther Ferrer ed a me, una domanda sull’importanza del pubblico.

Esther ha risposto che non gli importava nulla della gente presente, lei poteva anche performare davanti ad una sala vuota, io, invece, ho risposto come ha risposto allo stesso quesito Carles Santos in questo libro, ovvero la presenza del pubblico è fondamentale. Ho più volte scritto sulla presenza attiva dello spettatore che anche silente, rimanda segnali ben precisi verso colui che agisce. Non sono così certo che si crei un solco tra l’agente-performer e il ricettore-uditorio.

Il vero nocciolo della questione, che si chiami azione o performance poco importa, consiste nel come e nel quanto tutti questi ingredienti vengano shakerati. Qui si apre un ventaglio di soluzioni, dove ognuno sceglie secondo la propria sensibilità estetica. Ferrando sceglie, a ragione, come colla unificante, il metodo dell’istinto cui perviene attraverso l’utilizzo del gioco, qui inteso per dirla con Roger Caillois, come paidia, sinonimo di pieno potere alla spontaneità. Poi intraprende la strada della fusione che segue pedissequamente, sia la traccia Fluxus, ancora Kaprow che la teorizzazione intermedia di Dick Higgins anticipata da McLuhan. Mi pare, a questo punto, che tutti tasselli del suo argomentare siano al posto giusto e l’immagine d’insieme risulti efficacemente completa fin nei minimi dettagli, come succede nella preparazione di un poema visuale. Voglio, prima di concludere, annotare lo stile di scrittura, molto intrigante, scorrevole e piacevole, più che un trattato, dove fioccano tuttavia fior di citazioni a testimoniare lo spessore del sapere dell’autore, a volte sembra un vero testo di poesia, con metafore del tipo “las palabras e imágenes poéticas, convertidos en seres vivos, irrumpen y ocupan el cuerpo de los objetos de utilidad común”. Ho scelto questa citazione perché al di là del valore poetico, paragona le parole, le immagini ad essere umani, ed è vero, spesso ci dimentichiamo del nesso linguaggio-uomo. Forse proprio per questo nell’ultimo saggio del volume, dopo aver elencato tutti i punti della sua teoria, come esemplificazione, descrive una lunga serie di azioni quotidiane, a ricordarci che la vera performance è proprio la vita, ricollegandosi così ai suoi maestri già menzionati ed io ne son ben contento perché prosegue quella sana utopia, introdotta agli albori del secolo passato da Oscar Wilde il quale solo nella vita trovava la vera arte.

 

Bartolomé Ferrando, De la poesía visual al arte de acción, Sestao (Bizkaia), L.U.P.I. (La Última Puerta a la Izquierda), 2021. Segunda edición, primera edición 2014.

 

 

8 giugno 2021

A library already in your mind

 

Larry Wendt ha davvero una biblioteca in testa, ogni pezzo sonoro è una derivazione elaborata o concettuale di una porzione di sapienza depositata nel suo cervello. I presupposti sono la accurata conoscenza della cultura sia greca che romana, Giordano Bruno con intromissioni cabalistiche, per passare alla mitologia e allo zen, poi Claude Lévi-Strauss fino alla fusione nucleare o alla ricetta sul come cucinare un’anatra. Non manca un tocco politico come in Berlin Adonis del 1963 dedicato all’adorazione, distruzione e risurrezione di John F. Kennedy né va messa in secondo piano l’attrazione fatale verso l’esattezza matematica come in Log M Sutra dove sfruttando il logaritmo della mantissa organizza un’affabulazione numerica che potrebbe durare all’infinito. Ciò significa che il poema sonoro affonda le sue radici teoriche sui presupposti di un sapere eclettico. Premessa fondamentale questa per affermare che la sua ricerca tende alla trasmissione di grandi contenuti, starei per dire che mira alla Letteratura, per intensità creativa e coerenza comunicativa. Appare pertanto assai giustificato il termine di a theatre of the mind, impiegato da Steve Ruppenthal, nel saggio introduttivo stampato nel booklet che accompagna questo box de luxe di 4 LP in vinile nero più un dischetto di 7 pollici sempre registrato a 33 giri. Un teatro della mente anche perché il suo simultaneismo trova uno sbocco logico e imprescindibile nella reale performance.

Evito di proposito il fatto che i suoi lavori vengano etichettati come text-sound composition, tale definizione venne introdotta soprattutto dal gruppo svedese Fylkingen e attecchì  anche nella Bay Area. Rappresentava un inconsueto tentativo di risolvere fifty/fifty la questione della poesia e della musica in quel tipo di operazione. In realtà i vinili di questa antologia dimostrano sin dai primi ascolti che siamo in piena sonorità. Intanto il testo, il tanto sbandierato testo, affonda in un maelstrom sonoro, “e il naufragrar m’è dolce in questo”, dovremmo ribadire paradossalmente con Leopardi. Sfido chiunque a riconoscere una poesia di Algernon Swinburne in The Triumph of Time, non a caso dedicato a Bob Cobbing che ha fatto dell’azzeramento linguistico il suo marchio di fabbrica. Per riconoscere il testo occorre spulciare lo schema d’esecuzione.

È giunto il  momento di dire che la parola intesa nella sua classica definizione istituzionale non era e non è più necessaria, almeno in poesia sonora. Resta un soffio, una referenza di facciata perché l’apparato fonico e rumorico messo in atto regge bellamente e ampiamente il peso dell’opera. Non c’è dubbio che Wendt ha dentro di sé l’afflato narrante, lo so ben io, destinatario di tante sue lettere manoscritte, poi dattiloscritte ed oggi email, che per lunghezza detengono ampiamente il record tra tutti i carteggi con i protagonisti di questa arte, conservati accuratamente nel mio archivio sin dalla metà dei Settanta. Lui assomiglia a quel tipico avventore che entra in un bar affollato, e vuole a tutti i costi, narrare una storia. Ma il suo narrare è, per fortuna sopraffatto dal brusio e dal chiasso della sala, per cui anche alzando la voce, non si percepisce che un succedaneo orale, vocale sarebbe più appropriato dire.

Riascoltando queste 5 dischi, più ascolti sono consigliati, come direbbe John Cage, se non capisci, ascoltalo ancora, e se ancora non comprendi ascoltalo di nuovo, si colgono lievi sfumature e si tocca con mano la sua fine esperienza elettronica. Già, non per caso ricopriva il ruolo di tecnico del Dipartimento di Musica all’Università di San Josè, dove sono andato a trovarlo tutte le volte che transitavo per la Bay Area, anzi credo che lui stesso negli anni Ottanta mi avesse invitato a fare una performance nel relativo auditorium. Aveva dimestichezza con l’hardware, sicuro influsso della vicina Silicon Valley, in carico di una dotazione tecnologica di tutto rispetto per l’epoca in questione, metà anni Settanta. Ciò si riflette direttamente su tutte le strutture dei poemi, trattati con delicatezza tattile e nel contempo con lungimiranza filosofica. Mai come nel suo caso, il termine da me coniato di rumorismo, si adatta perfettamente. Chi ascolta senza dubbio percepisce un rumore, ma un rumore come dire, significante perché nasce sempre da un contesto linguistico cui resta sempre ancorato come punto di partenza.

Da un punto di vista architettonico, in merito alla costruzione pratica del poema, queste registrazioni storiche e quindi assai preziose si sviluppano quasi sempre individuando un piccolo nucleo, un frammento sonico che riesce ad isolare in maniera distintiva, e su quel minimo aspetto scava a lungo in nome di quella ripetizione che spesso diviene ossessione. Il particolare che diviene a poco a poco tutto.

 

Larry Wendt, Recordings 1975-1979, VOD-Records 152, 2017. (Germania)

 

31 maggio 2021

I rami sempre verdi di Brossa

 

La prima volta che ho visto una sua antologica, mi trovavo al Palazzo dei Congressi di Valencia, in occasione di Tramesa d’Art, un festival internazionale organizzato da Bartolomé Ferrando. Vi prendevano parte tra gli altri oltre allo stesso Brossa, Carles Santos, Adriano Spatola, Julien Blaine, Joël Hubaut, Eugenio Miccini, correva l’anno 1987, (il caso volle che nell’omonimo catalogo veniva stampato per la prima volta il Manifesto della Polipoesia). L’esposizione occupava tutto il piano terra del palazzo ed era un concerto irresistibile di trovate semplici per non dire banali ma nel contempo profonde, ammiccanti. Un frac con i colori della bandiera spagnola, la canna di un revolver che sfonda il bersaglio stampato su un cartoncino, i cordonetti di una scarpa che si arrotolano in un gomitolo, una macchina da scrivere con un panno dai disegni fiorati al posto della classica carta. Tutti i lavori esposti erano stati creati all’insegna di una sua nota affermazione “crear un sentit en coses que no en tienen”. Questo aforisma può essere esteso a tutta la sua produzione, dal teatro alla poesia, dalla scultura ai concerti.

Come il Simposio sulla sua opera datato 2001 fu la conseguenza della prima grande antologica Joan Brossa o la revolta poètica, tenuta alla Fundaciò Joan Mirò, così il secondo Simposio si svolge in scia all’altrettanto completa mostra Brossa Poesia, allestita al MACBA di Barcellona nel 2018. Questo voluminoso catalogo che esce ora si rifà a questi due ultimi eventi che sanciscono la figura di Brossa nell’empireo dell’arte catalana e internazionale. È diviso in tre sezioni che ne facilitano sia la consultazione che lo studio. Nella prima si affrontano i rapporti tra Brossa e il contesto culturale sia nazionale che estero, nella seconda, sotto il titolo di Nuove letture di Brossa, si focalizzano alcuni saggi sul come si dovrebbe leggere la sua opera a differenza di quello che appare, e nella terza, come si crea oggi a partire dall’esperienza verbo-visiva di Brossa.

Per ovvie ragioni di spazio, tra tutti i saggi selezionati, molto ben documentati e criticamente altrettanto ben organizzati, evidenzio quello che tratta del rapporto tra Felipe Boso e Brossa. Anzitutto, la figura di Boso ha un’importanza fondamentale nello sviluppo della sperimentazione visuale iberica, nonostante sia stato costretto all’esilio in Germania sin dai primi anni Cinquanta. Il carteggio che avviene tra i due negli anni Settanta dimostra proprio questo, due pilastri che hanno contribuito, ognuno alla propria maniera, a diffondere il verbo della poesia alternativa. Leggendo le lettere che si sono scambiate emerge il solito dato incontrovertibile, pochissimi riferimenti alla vita quotidiana, e invece una messe di dati su progetti, mostre e lavori. Questo tratto manageriale sembra contraddistinguere i poeti sperimentali da quelli tradizionali, i cui carteggi in genere si basano su meri dati esistenziali.

È assodato che nella sua longeva ricerca è sempre stato attratto dal mistero, dalla magia per esplorare quella zona dell’irrazionale che è insita nell’essere umano. E fin qui è in buona compagnia, senza scomodare certe frange romantiche fino all’estremo lembo surrealista. Però è anche vero che una volta controllato l’atto creativo, lo incanala sempre verso una precisa e ben determinata direzione. Condivido l’osservazione di chi ha scritto che la matematica è lo strumento principe del suo linguaggio. L’ho verificato rileggendomi tutte le pièces del suo teatro irregular dove al di là dell’effetto straniante al primo impatto visivo, ogni azione si svolge dietro una ben oculata regia al fine di una comunicazione mirata.

C’è una poesia di Octavio Paz che fotografa alla perfezione la sua cifra artistica:

 

Non è un dire: / è un fare.

È un fare / che è un dire.

 

Con un finale a sorpresa come nei suoi atti unici: “la poesia, va e viene, tra ciò che è e ciò che non è”.

A questo punto, mi sovviene il trasformismo alla Fregoli personaggio da lui amato e al quale si è spesso ispirato, con gli scontati corollari che alludono all’illusione della realtà, o all’irrealtà della visione. Ecco il suo Omaggio a Fregoli:

 

“Lo so che mi aspetti in qualche

punto del nulla, con l’eterno garofano

all’occhiello, per introdurmi,

infine, alla tua arte e per

pronunziare insieme

la parola carnevale”

 

 

Joan Brossa Els arbres varien segons el terreny, a cura di Glòria Bordons, Lis Costa, Eva Figueras, Barcellona, Edicions de la Universitat de Barcelona, 2021.

 

 

11 maggio 2021

Il backstage del fotoreporter

 

Lo hai definito il tuo Eden, era la tua condizione ideale, appagante e appagato te che potevi osservare quanto ti scorreva davanti. Anche la foto che ho scelto nel mio profilo FaceBook per ricordarti e lanciare quest’ultimo tuo prodotto, esemplifica perfettamente questo stato idilliaco dove la tua presenza è ben tangibile ma nel contempo è un’assenza, quell’assenza che ti consente la giusta distanza dal soggetto o dall’evento da fotografare. Non si tratta tanto di distanza fisica, quanto di una distanza mentale che definisce l’indipendenza del fotografo, e noi che guardiamo la foto, dovremmo sempre ricordarci dell’essere umano a noi invisibile ma visibilissimo attraverso l’immagine fissata dallo scatto.

L’ultima volta che ti ho visto, un afoso pomeriggio dello scorso giugno, in un baretto del parco vicino alla tua abitazione bondenese, io ero diretto alla Rocca di Stellata, dovevamo discutere, come era nostra abitudine, di nostri progetti futuri o in atto, e anziché focalizzarci su questo libro allora in gestazione, tu sei partito in quarta con un interminabile monologo sul mio Lemme vince il vento che stavi evidentemente leggendo. Riuscimmo comunque a ragionare anche sul tuo lavoro, e non poteva essere altrimenti perché il nostro era uno scambio paritetico.

Ogni prodotto d’arte, e ciò vale anche per la fotografia, dovrebbe sempre lanciare segnali inequivocabili sulla teoria che sostiene l’artista, in omaggio a quel detto che se non hai un conscio modus operandi, non vai da nessuna parte. Se si osservano attentamente le tue opere, si percepisce con chiarezza non solo le tematiche a te care che raggrupperei sotto il titolo il piacere di vivere, ma anche lo stile, sì, quello stile, che tu modestamente dicevi di non possedere, e invece era lapalissiano, sin dai primi scatti.  C’è sempre un personaggio che catalizza la nostra attenzione e nella sua staticità visuale ci trasmette, appunto, il moto delle vita. Te l’ho sempre ripetuto, la ricerca della felicità era la colla che teneva insieme il puzzle delle tue visioni: la carezza di una suora a Marco Pantani, un bimbo in volo, un’anguilla che disegna una S davanti a Carletto. In virtù della professione fotoreporter, per fare il verso ad un noto film irrinunciabile punto di riferimento per la tua formazione, hai percorso la terra italica in lungo e in largo sbandierando il vessillo di quella sana utopia che ti ha portato a classificare il mondo in ogni suo aspetto, senza tralasciare nulla. Quello che ci lasci è un affresco vivo, sfaccettato, frutto di quella inesauribile energia che mettevi nel catturare l’assoluto.

Per ribadire queste tesi cambiando prospettiva, nel volume fresco di stampa, dai libero corso alla narrazione, raccolta in modo prezioso e pedissequo da tuo fratello Mario. Di ogni foto argomenti il come e il perché, dimostrando che nulla è casuale, ogni dettaglio, ogni mossa è frutto di scelte precise, siano esse tecniche o strategiche. La descrizione più efficace è quella che riguarda la compagnia Filuzzi perché, è vero, ci sono mille modi di fare una fotografia, ma il segreto sta nel “cogliere quel momento, quell’attimo speciale” che poi la rende universale, al di sopra del contingente quotidiano. Sicuramente ti sei divertito in questi trent’anni di carriera, forse troppo brevi rispetto ai progetti che avevi ancora in mente. Il volume è ricco anche di aneddoti, mi sembra di vederti quando prendi una scorciatoia per piazzarti davanti a Margherita Hack che passeggia col cagnolino, così immagino la tua faccia allibita quando un Messner scocciato ti urla “non sono mica un burattino”, oppure quando un sussiegoso segretario del PCI bolognese ti spiffera che non può sorridere.  Adesso capisco perché camminando su un ponticello nei pressi della Casona Serilla nella Valli di Comacchio, una passione che mi hai trasmesso grazie anche a Christian, attivo e dotto vallante, mi hai fatto posare con i gomiti sul parapetto, sguardo perso verso l’infinito. In quello stesso punto, molti anni prima, avevi fotografato Luigi Ghirri, un tuo maestro, anche se voi due siete speculari, lui ha fotografato l’umanità del paesaggio, tu invece hai fissato la persona come paesaggio umano. Se devo fare un nome, a te parallelo, direi Pietro Donzelli, che ha indagato il Delta del Po, soprattutto quello rodigino negli anni Cinquanta.

Infine, visto che le menzioni le nostre Fono-Foto-Grafie, ricordo perfettamente quella mattina nel tuo archivio, quando mi hai dato carta bianca nello scegliere un centinaio di tue vecchie fotografie. Ci ho messo più di un anno per capire come intervenire su quel materiale, e solo il nostro solido sodalizio di lunghissima data, mi ha permesso di violare le immagini da te prodotte e trasformarle in altro. Concordo pienamente con te nel dire che “sono una danza di coppia, un ballo condiviso, un punto d’incontro, una somma, un’arte al quadrato”.

 

 

Mario Samaritani, Andrea Samaritani Fotoreporter, Bologna, Edizioni Minerva, 2020.

 

29 marzo 2021

L’ascia di Kafka

 

Chi analizzerà fra cinquant’anni le pubblicazioni cartacee ed in e-book di questo periodo pandemico sicuramente si troverà davanti un’impennata statistica come capitò quella notte di molte decadi fa a New York quando l’improvvisa interruzione dell’energia elettrica causò, nove mesi dopo, un’esplosione esponenziale delle nascite. Purtroppo nella nostra disgraziata epoca si propende più per le agonie che per i parti, ma c’è un dato che ci conforta. Nel pullulare del cicaleccio mediatico condito con lo straparlare dei talk shows, riemerge nitida e determinante la voce di quei poeti o di quegli scrittori che lungi dalle sirene auto-appaganti degli instant-book, si cimentano con il tema del virus, prendendolo a pretesto per riflessioni che travalicano il maledetto quotidiano per assestarsi in quella zona dove la scrittura diviene ascia atta ad infrangere il mare ghiacciato che è dentro di noi (F.Kafka).

È il caso di questi virulenti virus che sognando gli uomini, di fatto riescono ad introiettarsi nei loro corpi attraverso un contagio invisibile dal quale è impossibile difendersi, come si fa a vincere un nemico invisibile? “Una guerra persa in partenza perché contro l’invisibile non si può vincere”. Quando il libro è stato scritto, probabilmente durante la prima ondata, non si prospettavano vaccini ad hoc come oggi. Cambia poco la sostanza, e la sostanza è che è il senso della vita che finisce (ancora Kafka).

Anch’io al pari dell’autore sono un patito, ossessionato dai polar nella fattispecie quelli confezionati ed autoprodotti da Jean-Pierre Melville. E tale metodo polar (genere poliziesco e noir) è efficacemente battuto dal Nostro che stende consapevolmente un’aura da Big Brother, e gli viene facile visto che il Contagio ha provocato un arresto ai domiciliari dove tutto è dettagliatamente controllato. Il noir che non svelerò per lasciare la giusta suspense al lettore, è come il fuoco che cova sotto le cenere, lo si percepisce attivo lungo tutto il romanzo fino al dirompente ed imprevisto finale.

Leggendo quanto succede a Lafcadio  Morriconi (strampalato ma ben riuscito cocktail tra il Gide de I sotterranei del Vaticano e il Sordi trasteverino dell’americano a Roma), ed alla di lui moglie,

la biondona slava di Spalato Danka Seferovich, l’impressione che si ricava, ricalca quella nota espressione di Max Frisch secondo la quale “il genere umano mi affatica”. Il Contagio, come viene apostrofata la tragedia tuttora in atto, accentua un disagio pre-esistente, “a volte mi sembra di non riuscire a respirare” e non è colpa del virus. Piove sul bagnato. Però, il Lafcadio Morriconi, anziché salpare su un’ipotetica barca che dovrebbe portarlo in alto mare, al sicuro dal coronavirus e lontano da tutto e da tutti (immagine ben congegnata ed incipit del libro), resta in trincea e con occhio disincantato, cinico, mette a nudo tutte le possibili contraddizioni di questa società. Il faro di simile impietosa disanima è il noto aforisma di Hobbes homo homini lupus est ovviamente modificato in homo homini virus est, con lo scontato corollario vita mea mors tua.

A quel punto il Nostro è un fiume in piena, straripa, deborda, ingranando la quinta di un linguaggio derapato, non gli basta di essere alter ego del protagonista, ma ricorre ad una pletora di deuteragonisti che sono poi schizzi dell’io super diviso, (il sacerdote, il regista, il medico condotto, l’amico segaiolo ed erotomane, la psicologa on line che facendo ciarlare a briglia sciolta i depressi o repressi di turno, consente loro di “svuotare l’inconscio da tutta la spazzatura mentale accumulata”).

Tra battute petroliniane del tipo, siamo il paese del Futurismo, diventeremo il paese del Fu Turismo, oppure l’esilarante ossimoro di una non-azione iperdinamica (da intendersi come resistenza o resilienza), o neologismi anglofoni come whatsappare (per ingannare il tempo della vuotitudine durante l’interminabile auto-confinamento), [che poi il tempo non si lascia ingannare affatto anzi..], il libro ha la grande virtù di abbandonare quello che appare a prima vista l’aneddoto per approdare alla più solida riva dell’apoftegma. Preso da questa prospettiva il romanzo riserva continue sorprese di contenuto, addiviene tesi filosofica e varca in bellezza la cosiddetta linea d’ombra di Conrad, si distacca dalle incertezze giovanili per veleggiare impavido verso le certezze della maturità.

 

Marco Palladini, I virus sognano gli uomini, Roma, Edizioni Ensemble, 2021.

 

15 marzo 2021

Fantasmi sonori

 

Il libro si apre con un preludio di William Wordsworth inneggiante alle immagini che l’occhio intuisce nella rugosa parete di una grotta, come già Leonardo da Vinci aveva anticipato nel suo trattato sulla pittura e come del resto facciamo tutti noi quando intravediamo profili di giganti minacciosi o mostri imbizzarriti in certe nuvole michelangiolesche nel cielo primaverile. Poiché la ricerca del duo Ellison-Bailey è tutta protesa sin dal titolo verso il sonoro, ben si adatta a questo tipo di ricerca una nota strofa sempre di Wordsworth che estraggo dal primo della serie dei cosiddetti Lucy poems: My horse moved on: hoof after hoof / He raised, and never stopped: / When down behind the cottage roof, / At once, the bright moon dropped. La bellezza di quel hoof after hoof  (zoccolo dopo zoccolo), anche doppia onomatopea che suggerisce sia l’ansare del cavallo al galoppo sia l’imminente ansare amoroso del cavaliere lanciato nella notte verso l’amante pronta ad accoglierlo nel talamo. Inoltre quel He raised , and never stopped, indica sicuramente la foga del destriero nel raggiungere l’agognata meta, ma anche la conseguente erezione al pensiero dell’incombente amplesso.

Ecco fornito un esempio di fantasma sonoro proveniente da un testo lineare, oggi l’input proviene da performance sonore di ogni tipo ivi inclusi oggetti, macchine ed elettrodomestici, perché è vero, come si legge in Kant o in Anaïs Nin, che “noi guardiamo il mondo non come esso è, ma come noi siamo”. In altre parole questi fantasmi siano essi sonori che visuali albergano già negli anfratti del cervello, basta la scintilla di una sequenza fonica per evocarli, eccitati peraltro dalla dopamina, sostanza cerebrale necessaria per tale illuminazione. L’artista è in grado di vedere o ascoltare questi fantasmi, in questo esatto punto si toccano arte e pazzia, si pensi alle oniriche visioni di Dalì o alle pitture inconsciamente automatiche di André Masson. In questo senso è giusto definire il cervello un organo fantastico, dal greco phantastikos capace di creare immagini mentali. Naturalmente il libro scarta a priori il lato patologico o psichiatrico del problema per concentrarsi su tutti quegli aspetti noti come pareidolia, ipnagogia e apofenia, allucinazioni o illusioni forti di fluide creatività sia estetiche che auditive, perfettamente riassunte nel titolo, appunto, sonic phantoms.

E qui comincia una brillante cavalcata verso quei prodotti sonori identificati secondo tre capisaldi guida: il primo riguarda l’ambiguità, secondo Ernst Kris, “ogni immagine è intrinsecamente ambigua”. Inoltre l’ambiguità permette all’artista l’estromissione dei suoi conflitti e delle sue complessità in immagini o suoni che a sua volta, il cervello del ricevente deve elaborare secondo la propria esperienza in ossequio al noto principio secondo il quale, più ambiguo è il materiale percettivo-sensoriale, più impegno dobbiamo infondere per decodificarlo.

Il  secondo contempla la ripetizione, scontata regola da quando almeno Jakobson sin dagli albori del secolo scorso l’ha individuata come la caratteristica principale di ogni sperimentazione poetica. Il terzo, come logica ed estrema derivazione del secondo, presenta l’effetto trance. È vero come sostiene Bill Viola, che si può entrare in trance anche senza ascoltare musica oppure ascoltare musica e non entrare in trance. Ognuno ha i propri modi come il surfing in rete, oppure davanti al televisore per la partita di calcio o il film, ma anche il concentrarsi per la soluzione di un problema concettuale. Difficile mantenere un controllo quando si è in stato di trance, ci riuscivano solo gli esperti sciamani, e poi sembra una contraddizione, in questi casi, porre un freno. Tutte le performance di Barbara Ellison qui abbondantemente illustrate, si avvalgono di estenuanti iterazioni sia di suoni che di movimenti mimici, grafici o visivi volutamente orientati verso stati di dissociazione, al punto che non solo chi ascolta o vede “si perde” ma anche gli stessi interpreti perdono se stessi. “Dobbiamo perderci se vogliamo ritrovarci”, tuonava Hugo Ball. Mai fermarsi, quindi, non porsi alcun limite in questo stordimento, secondo un noto punto del nostro Manifesto della Polipoesia anche perché “quando le chitarre elettriche sono al massimo, possiamo sentire tutti i suoni dell’universo” (Iannis Xenakis).

Chi segue il mio lavoro sa quanto io abbia insistito sulla gerarchizzazione degli elementi costituenti la performance polipoetica, ossessione che evidentemente condivido con la Ellison quando dichiara di praticare moduli di organizzazione verticale e di rifiutare quelli orizzontali, orientandosi verso simultaneità di strutture soniche. Basta scorrere qualsiasi suo spartito per rendersene conto, tra l’altro, constato la quasi assenza di note musicali per privilegiare il segno chirografico. Di fatto viene concesso grande spazio alla manualità, soprattutto quando l’insistenza nel disegnare traiettorie astratte, direi fono-grafiche, anche se stavolta, in un senso diametralmente opposto alle mie Fonografie, la spinge di nuovo verso una trance audio-psicologica, esperienza che lei stessa chiama drawing of the sound o sounding of drawings.

 

 

Barbara Ellison, Thomas Bey William Bailey, Sonic Phantoms, Composition with Auditory Phantasmtic Presence, edited by Francisco López, New York, Bloomsbury, 2020.

 

18 gennaio 2021

Setòrias: storie di seta per i poeti di Sète

 

Credo di essere stato io stesso una bella serata agostana nel dolce tepore della città portuale di Sète a chiedergli di leggere il testo ora pubblicato. Udire dal vivo la lingua occitana, la storica lingua d’oc è sempre una fortissima emozione. Frederic è uno dei pochi che ancora si ostina ad usarla, e fa bene, la poesia è il luogo giusto per mantenerla viva e vegeta. Nel libro uscito quest’anno l’accoppia anche con il francese che svolge il ruolo di lingua accentratrice, (testo a fronte si direbbe come si fa per una lingua straniera). Ascoltandolo nella notte durante questa lettura quasi intima, si capisce subito perché Dante e Petrarca ma anche Pound restarono stregati se non affascinati da questa mistura sonora, dove il latino si sensualizza con vocalità altalenanti, anche i suoni gutturali vengono addolciti. L’occitano ingentilisce le asprezze, smussa gli angoli dell’imprecisione fonetica, creando un ritmo coinvolgente e avvolgente.

Il titolo della raccolta omaggia non tanto gli abitanti di Sète, quanto la frotta di invitati-letterati che affolla la città natale di Valery, la perla del Midi Francese, propaggine nel mare Mediterraneo. Ogni anno durante l’estate è prassi consolidata che accolga una kermesse internazionale di poeti. La poesia invade la città nel vero senso letterale della parola con reading, letture, performance, presentazioni, mercatini, incontri in ogni luogo, dalle strade ai pub, dai teatri alle gallerie, a flusso quasi continuo, spesso con parecchi eventi coincidenti, e così avanti fino a notte fonda. Nel mio pluridecennale girovagare per festival di mezzo mondo, un eccesso del genere l’ho visto solo a Medellin.

Il primo verso e l’ultimo della raccolta sono gli stessi (d’ora in avanti trascrivo trilingue per invogliare il lettore ad approfondire), Crenti pas resJe ne crains rienNon credo a nulla. Esplicita tale dichiarazione d’impotenza che è sempre implicita in ogni tipo di poesia, e una volta di più appurato il nichilismo poetico, si affida, per comunicare questo stato di permanente inanità, a quello che si chiama un enueg (noia, fastidio) quando si lamenta, per esempio, del terrorismo islamico, Arriscas pas grand causa/Non vendrà pas/Daesh/cramar lo clavièr del poèma – Tu ne risques pas grand-chose/Daesh/ne viendra pas/brûler le clavier du poème Non rischi più di tanto/Daesh/non ce la farai/a bruciare la tastiera del poema.

O quando richiama l’attenzione sui migranti nordafricani, E s’enamorèron d’Euròpa/sens la solament veire Et ils s’éprirent d’Europe/sans même la voirE costoro si sono innamorati d’Europa/senza neanche vederla

S’appoggia invece al serventese quando si tratta di celebrare non tanto la funzione della poesia che come abbiamo detto non intacca il tessuto sociale quanto il poetare stesso, metafore marine come, los poètas son peis/que s’encreson pescaires les poètes sont de poissons/qui se prennent pour des pêcheurs i poeti sono dei pesci strani/che si credono pescatori – Consigli tipo, De mots/ne pòdes samenar/de mots Des mots/tu peux bien en semer/des mots Parole/tu puoi sempre seminare/delle parole – Infine piccoli, grandi miracoli, Es en ivèrn/que se veson los invisbles/quand la calada dins la nèu/s’acaba -–C’est en hiver/que nous voyons les invisbles/quand la coulée dans la neige/s’interrompt È d’inverno/che noi vediamo l’invisibile/quando il cadere della neve/cessa

Tuttavia l’atmosfera festivaliera aleggia su tutto il libro, vista sempre da un punto di vista disincantato, quasi di straniamento, Encontres sens encontre/sonca lo palpejar de las guinhadas Rencontres sans rencontre/seulement le tâtonnement des regards Incontri senza incontrarsi/solamente il brancolare di sguardi – Oppure Totjorn ambe la paur/en fàcia d’engaitar/la paur de caplevar Toujours cette peur/de regarder en face/cette peur di basculer Sempre questa paura/di guardarsi in faccia/questa paura di mettersi in gioco. Lungo tutto il testo si trovano vari ritratti di poeti, amabili e penetranti che lascio al lettore la sorpresa di scoprire, mi si perdoni la citazione parziale di quello che mi riguarda perché non credo di essere mai stato definito come segue …pel trepador bandeja/un filactèri desfilfrat – sur le trottoir flotte/un phylactère effiloché – …sul marciapiede fluttua/un filatterio sfrangiato -.

 

 

Frederic Fijac, Setòrias (Sétoises), Salinelles, L’aucèu libre, 2020.

 

30 dicembre 2020

Time present – time past

 

Mi ha sempre attratto il passamano artistico, il guardare un altro artista, non tanto per copiarlo ma per carpirgli il segreto della sua arte, per vedere come se la cava davanti ai problemi, non a caso di uno scrittore si dice che non legge gli altri scrittori ma li spia.

Lo faceva anche il grande Michelangelo che a cavallo per le vie di Roma si fermava ad osservare gli affreschi di palazzo Mattei, opera di Taddeo Zuccari, il grande Velazquez di passaggio in Emilia deviava dalla rotta tradizionale per sostare nell’atelier del Guercino, qui a due passi. Per non parlare dell’influsso che l’arte africana ha avuto su Picasso, eccetera eccetera. Ovvietà, certo. Capita, assodate le dovute proporzioni, che ciò avvenga anche in quei settori sperimentali dove sembrerebbe più difficile passare il testimone. Già ho segnalato in un precedente blog come sia possibile una cover di una performance di polipoesia, adesso voglio affrontare, invece, il tema di una creazione ex novo partendo da videopoesie e da poemi sonori.

È quanto hanno fatto Stefano Tassi e Carlo Andreoli isolando da una serie di videopoesie, un centinaio di frame di loro gradimento. E questa è già una scelta, nel senso che hanno individuato nella sequenza videotelevisiva un qualcosa che poteva essere fermato, modificato e ampliato. Una volta compiuta la cernita hanno stampato su carta le videoimmagini estratte dal loro contesto ed hanno iniziato a lavorarci sopra, evidentemente ispirati dall’oggetto che avevano a portata di mano. Ognuno di loro ha già in dotazione il proprio stilema grafico, (Tassi propone un tocco anemico, Andreoli un segno chirografato), un metodo che hanno applicato alla superficie cartacea creando un nuovo lavoro perché la base di partenza viene giustamente alterata, potenziata, sviata grazie al loro intervento manuale.

Operazione simile come processo ma diversa per materia viene intrapresa da Alessandro Paltrinieri (3ViTre Records revisited) il quale si è orientato verso una serie di poesie sonore, ma quanto è venuto componendo non è una cover come apparentemente ci si potrebbe aspettare, ma un nuovo pezzo tout court. Sicuramente non è più un poema sonoro, avviene una trasformazione strutturale per cui si è legittimati a parlare di sperimentazione musicale con un materiale grezzo prelevato dalla poesia sonora. Alla fine dell’ascolto siamo più propensi a posizionarci nei pressi di un audiopoema che di un brano strumentale, in quanto, pur ipnotizzati da un ritmo incalzante, il materiale linguistico resiste ed emerge.

Ciò che intriga maggiormente è stabilire come il nostro autore raggiunga questo risultato. Anche qui in prima battuta viene operata una selezione, evidentemente vengono prelevati quei pezzi che gli consentono ad orecchio uno sviluppo. Una volta predisposto l’hardware per ricevere siffatto materiale, fa entrare in azione l’algoritmo warp che lavora i suoni. Ora, tale procedere mi fa venire in mente il Nanni Balestrini che, nei primi anni Sessanta presso il milanese Studio di Fonologia, inseriva dentro il computer centinaia di parole che il programma elaborava autonomamente, risputandole fuori sui fogli stampati sotto forma di composizioni logiche, illogiche stralunate, impossibili, illeggibili, e il poeta, in ultima analisi, decideva se mantenerle o cassarle. Qui, invece, il materiale sonoro subisce sia l’alterazione tonale dovuta all’algoritmo ma anche l’intervento dell’operatore che stabilisce i tempi di uscita ed entrate, nonché i volumi, voglio dire che mentre l’algoritmo salassa i poemi, il musico vigila pronto ad intervenire.

Quindi, per riprendere il titolo, e completarlo secondo l’Eliot dei Four Quartets, il presente e il passato sono forse presenti nel futuro, ma è certo che “il tempo futuro è contenuto nel tempo passato”.

 

 

Giacenti Intonse e Dimenticate, Museo Archeologico, Casa dell’Ariosto, Rocca di Stellata, 19 settembre-19 ottobre 2020.

 

17 novembre 2020

Écrire à Haute Voix

 

Scrivere ad alta voce, l’intervista di Philippe Franck a Jean-Pierre Bobillot si presta ad alcune riflessioni sul tema della poesia sonora, generalmente intesa. Intanto va specificato che Jean-Pierre sta a Bernard Heidsieck come Richie Kostelanetz stava a John Cage. Voglio dire che nell’ambiente si dà per scontato che Kostelanetz conoscesse l’opera di Cage quasi meglio di Cage stesso, si veda l’intervista che gli ho fatto a New York anni fa. Così Bobillot mastica a menadito l’opera di Bernard, come risulta anche dalla mia intervista ad Heidsieck stesso, forse una delle ultime se non l’ultima. Infatti Bernard si mostra orgoglioso di questo giovane ricercatore dell’Università di Grenoble in qualche modo illuminato dalla sua opera al punto da diventare il più fedele ed agguerrito sostenitore della sua poèsie action. Quando si sta troppo vicino al fuoco si rischia di scottarsi. Questo, fortunatamente, non succede a Jean-Pierre che nonostante l’estrema dimestichezza con l’opera omnia di Bernard, riesce a mantenerne le distanze una volta che lui stesso si propone come poeta-performer. Non a caso si autodefinisce un poète bruyant, un poeta rumoroso, anche se si dovrebbe aggiungere, per non ricadere nell’Arte dei Rumori di Russolo, che si tratta di un rumorismo fonetico, un rumore che non parte dalle macchine quanto dalla bocca, un rumore svincolato dalla materia, e legato a filo doppio alla lingua. Questa nozione del rumore assume una valenza determinante anche se presta il fianco a facili ed stupide critiche, nella Francia stessa, per esempio, un po’ per disprezzo, un po’ per ignoranza, la poesia sonora viene bollata con l’onomatopea che richiama il rumore di un motore. Calza a pennello, pertanto, la distinzione che Bobillot saggiamente svolge tra communication e communicativité, la prima la conosciamo assai bene, è quella che ci assale e assilla torturandoci ogni giorno appena ci esponiamo all’influsso (malefico?) dei media o dei social, la seconda, più in odore di sensibilità ed empatia viene emanata da chi cerca di sottrarsi al giogo della comunicazione quotidiana, per questo pensiamo sia necessario continuare a produrre rumore fonetico dentro un contesto linguistico oramai marcio ed edulcorato.

A domanda precisa, – Perché proprio Heidsieck tra i tanti possibili poeti sonori? -, risposta – Perché è carico d’umanità, di umanità in ogni senso -. A questo punto s’accende la spia di una percezione, come dire, personale oltre la quale non vale nessuna argomentazione oggettiva.  Jean-Pierre percepisce l’umanità forse perché Heidsieck a differenza dei Lettristi e degli Ultra-Lettristi si affida ancora alla parola nella sua sacra integrità e quindi più facilmente abbordabile per non dire veicolabile nei contenuti umani. La stessa umanità, altresì, trasuda anche da chi ha basato il proprio lavoro su un netto rumorismo fonetico, abolendo del tutto la parola. Naturalmente sto pensando ad un Henri Chopin che ha filtrato la sua esperienza di soldato in Indocina, per esempio, dentro certi poemi sonori che fanno venire la pelle d’oca appena li si ascolta. Vien da dire che ogni strada è lecita.

Vorrei infine, soffermarmi sul fatto che l’intervistatore lamenta l’assenza di insegnamenti universitari sul tema, e lo stesso Jean-Pierre rincara la dose, ribadendo che dopo il suo pensionamento, nessuno sta portando avanti le sue posizioni così faticosamente conquistate. Ed è a questo proposito che da Henri Meschonnic, viene citato Paul Zumthor e la sua Introduzione alla poesia orale (1983) “dove – testuali parole – ignorava completamente i poeti cosiddetti sonori o d’azione”. Vero che in quel libro capitale non fa esplicito riferimento alla poesia sonora, però basta scorrere la bibliografia per capire che non è vero, un nome su tutti, l’opera di Gilbert Durand. Io ho conosciuto per la prima volta Zumthor nell’autunno del 1986, mentre ero diretto proprio ad un festival organizzato dalla Rivista Inter a Québec, feci sosta a Montreal con il preciso scopo di andarlo a trovare a casa sua (si veda La Voce della Poesia). In quell’incontro ebbi modo di constatare che era davvero ferrato sul mondo della poesia sonora, era già in contatto diretto con Chopin, sapeva dei miei lavori al punto che mi propose di scrivere qualcosa sulle mie prossime produzioni, cosa che poi avvenne con l’uscita del mio LP The Sound Side of Poetry (Firenze, Zona Archive, 1991). Quindi, prima di scrivere certe banalità bisognerebbe avere l’umiltà di documentarsi o chiedere direttamente ai protagonisti.

 

Rivista Inter, Québec, 2020.

 

9 novembre 2020

 Il baluardo Bau

 

 Viene abbastanza facile definire l’impresa multi facce di Bau come una delle ultime trincee a difesa di quell’avanguardia sempre più in odore di estinzione. Nata come rivista da assemblare (ogni autore fornisce un numero concordato di originali) nei primissimi anni del nuovo millennio si è via via trasformata in azienda propositiva di mostre, performance, eventi, multipli come rapidamente si evince dal catalogo edito per la grande collettiva visitabile al CAMeC di La Spezia fino al 27 settembre con tutti i lavori dei 16 numeri editi appesi alle pareti. L’aggettivo facile mi richiama alla mente quanto scrive Lucilla Saccà che in scia Fluxus ribadisce quanto fosse appunto facile fare arte e di conseguenza ça va sans dire tutti possono potenzialmente essere artisti. Questa impressione  di facilità emerge anche sfogliando il volume suddetto ricco di moltissime riproduzioni a colori.

In realtà l’opera d’arte non è mai un qualcosa di scontato, Beuys diceva a ragione che per capire cosa succede in una performance bisogna farla. Inoltre, dando per assodato che il pensiero è una vocazione, anche se Warhol denunciava che era più facile comprare che pensare, (in riferimento a certi improvvisati collezionisti), dietro ad ogni tavola traspare nitido il processo creativo. Ancora in tema di facilità non posso non citare una stucchevole performance di Bruno Munari che dopo aver stracciato foglietti di carta si avvia verso la sommità di una torre e da lì li lancia nel vuoto per realizzare ciò che ha definito La resistenza dell’aria. A chi gli obiettava che tutti erano capaci di fare ciò, la risposta fu, “Però nessuno ci ha ancora pensato!”.

Mettere la mani dentro al contenitore Bau vuol dire esporre alla vista una serie caleidoscopica di visioni che spaziano dalla poesia visuale (la più gettonata) alla scrittura (nuova o simbiotica che sia), dalla poesia visiva alla mail art, dal grafismo concettuale al bozzetto pittorico.

Ciò che li tiene insieme è l’afflato sperimentale verbo-voco-visual ovvero quel desiderio inossidabile e per fortuna duraturo di battere strade che oggi sembrano fuori moda per non dire obsolete davanti allo strapotere mediatico del virtuale.

Eccoci giunti al nocciolo della questione. In un mondo dove contano il numero delle visualizzazioni YouTube (per altro algoritmiche e tutte da verificare), l’accumulo di I like nei profili Facebook o gli analytics dei website, Bau contrappone l’indispensabilità del materiale cartaceo, l’autorevolezza dell’oggetto concreto, il potere del pastello contro l’invadenza del mouse, il valore del collage contro il copia-incolla di Word.

La nozione di arte, secondo il grande Le Corbusier, “implica una conoscenza, una coscienza, una padronanza”. Sacre e sante parole, non sono così sicuro che questa triade così essenziale anche se formulata quasi cent’anni fa, secondo me ancora attualissima, sia riscontabile oggi. Per argomentarla ricorro ad un aneddoto personale che riguarda Viareggio, la città di Bau, litorale che conoscevo come le mie tasche visto che ogni estate, in quei lontani anni Settanta, la passavo nel limitrofo Golfo dei Poeti.

Giusto 41 anni fa esatti, il 26 agosto del 1979, Vittore Baroni, che ho conosciuto a Viareggio presso la locale biblioteca per la prima volta proprio quel giorno, curava una mostra di satira, intitolata appunto Political Satire. Il catalogo edito da lui stesso per la Commonpress di Pawel Petasz, il numero 23 per l’esattezza, ricalcava gli stessi schemi fai-da-te già citati, come era allora in gran voga ricalcando le esperienze americane di Aspen  o di Assembling di Richie Kostelanetz. Ora, ho impiegato pochi secondi a ritrovare nel mio archivio copia di quella pubblicazione che adesso maneggio con cura, anche con un certo piacere sia tattile che intellettivo, invaso da una palpabile soddisfazione di possesso.

E se tutto questo materiale fosse stato trasferito sulla nuvola, Cloud in gergo di rete, che fine avrebbe fatto? E se qualcuno all’improvviso distruggesse la nuvola? O ne impedisse il collegamento? O chiedesse un pedaggio per l’accesso? Ecco, in breve, tutta la fragilità o l’aleatorietà del mondo attuale contro cui Bau lotta ergendosi ad ardito sostituto, stavo per scrivere antidoto.

 

Bau Contenitore di Cultura Contemporanea 2004-2020, a cura di Mara Borzone, Viareggio, Pezzini Editore, 2020.

Bau Contenitore di Cultura Contemporanea 2004-2020, Centro Arte Moderna e Contemporanea, 21 febbraio-27 settembre 2020, La Spezia.

 

26 agosto 2020

Possibile una cover in poesia sonora?

 

Preciso subito che non mi risultano poemi sonori nati o quanto meno ispirati dichiaratamente da altri, come avviene di prassi nel mondo musicale. Può darsi che mi sbagli ma dopo oltre quarant’anni di attività e frequentazione del mondo della poesia sonora, non mi sono mai imbattuto in una cover di poesia sonora. Esula dal discorso che intendo affrontare quella che comunemente si definisce influenza stilistica, più o meno consapevole, come in pittura si dice di un pittore che ha guardato tizio e caio. Per esempio, l’onda futurista ha provocato maree di epigoni come certe rarefazioni lettriste sono state perpetuate fino ad ora. In un recente blog citavo il rabbino Abulafia che già nel 1200 praticava la permutazione.

Per quanto riguarda il mio lavoro, invece, nel recente passato ci sono stati due casi abbastanza infelici (dirò poi le ragioni senza nominarli), ma la domanda iniziale me lo pongo adesso perché solo ora vedo, ascolto e ammiro un prodotto di buon livello creato consapevolmente sull’input di un mio pezzo storico. Si tratta di Figura Poema di António Dantas e Fernanda Martins realizzato nel novembre del 2019 al Museu Café di Funchal (isola di Madeira), mentre il mio Figure Poem è dell’ottobre del 1985, con sottotitolo ogni riferimento alla lingua Italiana è puramente casuale, basilare per intenderne il vero e recondito significato. A dirla tutta, nell’esecuzione live agivo con un filo che articolavo e disarticolavo in corrispondenza delle varie sessioni fonetiche, ma questo il duo lusitano non lo poteva sapere, a loro è bastato ascoltarlo.

Ora, perché ha attirato la mia attenzione la performance della coppia portoghese? Perché hanno intrapreso l’unica (secondo la mia esperienza) via davvero efficace per estendere e moltiplicare Figure Poem che consiste nel riconoscerne la struttura complessa, una volta introiettata, da lì partono per creare il loro poema, innestandovi una loro originalità con appropriate citazioni acustiche, peraltro legittime e dosate con sapienza eufonica. Forse cover non è il termine giusto anche perché in poesia sonora a differenza della musica non esiste un codice comune, libera reinterpretazione si adatta di più a questo tipo di operazioni

Si commette invece un imperdonabile errore se si riproduce piattamente e pedissequamente quanto già fatto da altri (ecco spiegato il motivo per cui i due casi sopracitati non mi sono affatto piaciuti) anche perché, e qui tocco un altro tema spesso ignorato dai cultori della poesia sonora, le nostre performance sono in ossequio ad evidenti regole deittiche così radicate dentro la nostra corporalità, nonché vocoralità, per usare un neologismo a me caro, che diventa pressoché impossibile, una riproposizione tout court. Chi osa performare dal vivo un Henri Chopin o un Bernard Heidsieck o anche un John Giorno senza rasentare il ridicolo?

Ci sono altre due osservazioni da fare sulla performance di cui sto trattando. La prima riguarda la performer live, Fernanda Martins, la quale sta in scena per dieci minuti, microfono in mano, un occhio allo schermo, e vocalizza senza nessuna presenza di foglietti o plichi cartacei che io non ho mai sopportato, almeno da un certo momento in avanti della mia carriera. Apprezzo questo gesto da attore che ha memorizzato la propria parte e la snocciola a viso aperto per instaurare giustamente un contatto diretto col pubblico senza barriere, leggi leggii, che lo ostacolino. Inoltre la presenza delle video immagini completa la bellezza del loro atto. Per nulla invadenti, lacerti di fonemi prelevati dal titolo stesso, sfocature e ingrandimenti per tenerle a ragione in secondo piano, sono un rettangolo luminoso che evidenziano ancor di più la incalzante sperimentazione lessicale con le sue ondulanti tonalità. Da questo punto di vista Figura Poema rientra a pieno titolo in quella che io ho definito Polipoesia.

 

 

Figura Poema, Performance videopoética de António Dantas e Fernanda Martins a partir de poema de Enzo Minarelli, 2019.

 

 

15 luglio 2020

Ho scoperto l’acqua calda?

 

Domanda legittima che si pone Richard Kostelanetz in anglo-americano suona così, that I invented the light bulb? L’ovvietà lapalissiana in Italiano viene resa dal calore acqueo mentre l’Inglese ricorre alla luce, c’è sempre un tratto popolare di vita vissuta che si riflette nella lingua! Può darsi che abbia davvero scoperto l’acqua calda perché il suo Folk Poetry sviluppa l’idea degli scioglilingua popolari tipo Trentatré trentini/entrarono a Trento/tutti e trentatré/(di tratto in tratto/ trotterellando, riscrivendoli di sana pianta o semplicemente ritoccandoli. Ciò che scopre o meglio ciò che rimette in circuito è l’ennesima prova tangibile di quella che Max Bense genialmente ha chiamato fantasia razionale.

Nel nostro orticello letterario campione del genere è Toti Scialoja, all’uopo posso anche ricordare le mie Meccanografie (1991). Il fatto che Kostelanetz dedichi questa impresa poetica ad Al Boasburg (1891-1937) the comedians’ comedian, vuol dire che propende decisamente per una scoppiettante elaborazione linguistica. Per la cronaca ricordo che Boasburg è colui che ha scritto fior di film per i fratelli Marx con un recitato inventivo direttamente collegabile con i nostri Totò ed Ettore Petrolini.

 

Davanti a siffatto materiale di base, non c’è limite alla sperimentazione che passa in rassegna tutte le più consolidate e spericolate tecniche di sbriciolamento ed inusitato accostamento della parola (alias la futurista analogia) per sottolinearne attraverso lievi sommovimenti grandi cambiamenti di significato. Per esempio, Take my father/Farther and/Then further, fa leva sul semplice cambio di un fonema nella coppia contrastiva farther/further entrambi significano più lontano, il primo però in senso fisico, il secondo teorico. Oppure A tidy tiger/tied a tie tighter/to tidy her tiny tail, fuochi d’artificio sulla dentale t con sbandamento nel non-sense, come farà una tigre a legarsi più stretta una cravatta e nettarsi la sua codina? Il richiamo intraverbale spunta in What kind of noise/Annoys an oyster?/A noisy noise/Annoys an oyster, mescolando noise (rumore) con oyster (ostrica). Idem, il gioco delle scatole cinesi con scream (urlare) e cream (crema), I scream/you scream/we all scream for ice cream. E non poteva mancare, lui radicatissimo abitante di Manhattan il suo omaggio a New York, You know New York/You need New York/You know you need Unique New York.

Viene spontaneo propendere per il divertissement mentre si legge questo centinaio di poesiuole, fino ad un certo punto però, perché anche attraverso il gioco di parole si arriva alla riflessione. Se confronto il notissimo verso di William Blake da The Tiger, and when thy heart began to beat con The beet that beat the beet, ci si accorge che la distanza è minima.

Leggendo il seguente distico apparentemente innocuo nel suo insistere allitterante, Jim and Jam jam/In a jungle gym con questo improvviso risvolto amoroso, m’è venuta alla mente la ricerca più che quarantennale di Luisa Sax perché il suo esordio risale alla fine degli anni Settanta quando era la sassofonista del gruppo punk rock Clito. Abile nel comporre brevissimi testi, manovra lo smistamento lessicale al minimo per ottenere piacevoli assonanze che in virtù proprio della sua semplicità cui aggiungerei anche ingenuità, ottiene il massimo effetto. Si veda Menage a trois che è un remake di una sua vecchia poesia per capire come la banalità nasconde spesso delle grandi verità.

 

La domanda di fondo, infine, prima di comporre un testo resta sempre la stessa, come comporlo?

Ecco una possibile risposta:

Cuando cuentes cuentos

cuenta cuantos cuentos

cuentas cuando cuentes

cuentos.

Consapevoli purtroppo che

Hoy ya es ayer y ayer ya es hoy

ya llegó el día, y hoy es hoy.

 

 Richard Kostelanetz, Folk Poetry, New York, Archae Editions, 2020.

 

 

11 luglio 2020

L’Ebraismo all’avanguardia

 

La chiave di questa ennesima ed avvincente impresa esegetica di Mario Costa può essere riassunta nel seguente implacabile sillogismo: la Jewishness si è travestita da avanguardia, tutti han voluto fare dell’avanguardia, quindi tutti han lavorato al servizio della Jewishness. L’inizio è stato abbastanza tribolato, intanto perché le parole di Dio a Mosè nell’Esodo suonavano a condanna perenne: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra”. Il divieto riguarda non solo l’oggetto tridimensionale ma anche qualsiasi immagine. Ragion per cui l’ebraismo è da sempre considerato “una cultura aniconica, priva di immagini ed estranea ad ogni tipo di mimesi”.

Poi le leggi razziali di stampo nazista hanno dato il colpo di grazia, anche se di fatto hanno favorito una emigrazione colta ed intellettuale soprattutto verso gli Stati Uniti d’America, consentendo a quel nutrito drappello di fortunati (perché evidentemente avevano i mezzi per espatriare) di occupare quei posti nevralgici necessari per la cosiddetta giudaizzazione dell’arte. L’ostracismo divino viene aggirato, non più l’arte come imitazione, bensì come espressione, “la pittura deve essere niente altro che una superficie colorata priva di ogni rimando figurativo” (si veda http://www.sharecom.ca/greenberg/). Ciò ha provocato il conseguente trionfo dell’espressionismo astratto pontificato da Albers, ebreo, quale rettore del famoso Black Mountain College nella Carolina del Nord e finanziato dalla CIA che impegnò per l’operazione rilevanti fondi monetari nonché risorse umane ad hoc. Scopo dichiarato, diffondere attraverso i classici canali delle gallerie sia private che pubbliche le opere di Newman, Rothko, de Kooning, solo per citare i più noti di questo nutrito gruppone ebreo. Albers forte della sua teoria dell’arte della percezione azzera il tratto mistico dell’espressionismo alla Kandinsky o alla Mondrian avviando un irreversibile processo di laicizzazione. La Cia, come detto, ci mise lo zampino sbandierando questo tipo di ismo inneggiante alla libertà, alla piena autonomia dell’artista in risposta al rigido zdanovismo dell’Unione Sovietica. L’arte come strumento della guerra fredda. Nulla di nuovo per quei periodi, penso agli attrezzatissimi studi di musica elettronica fatti costruire dagli USA nell’America Latina con il subdolo intento di impegnare le menti più brillanti e vivaci in innocui (naturalmente per chi li finanziava) giochi acustici, ammorbidendo il loro impegno sociale.

Alla base di questo teorema giudeo sta e non poteva essere altrimenti un rabbino del XIII secolo al quale il Tel Aviv Museum of Art nel 2016 ha dedicato una mostra dal titolo sibillino, Alchemy of words: Abraham Abulafia, Dada, Lettrism. Non mi sorprende che tale esposizione “serve in sostanza a mettere sotto la tutela di Abulafia tutta la sperimentazione artistica del Novecento legata alla poesia visiva e sonora”. Io stesso ho dedicato Romanzi nelle i a questo ineffabile ed instancabile figura di ricercatore linguistico, convinto che fosse una pietra miliare di quella triade verbo-voco-visual così diffusa nella seconda metà del secolo scorso. Scontato inanellare i nomi di Hugo Ball, di Schwitters fino a Brion Gysin o Isou, quest’ultimo vero cavallo di battaglia del Nostro, e a ragione, basta citare dalla sua meca-estetica, teorizzata nel 1952, questa affermazione profetica, “qualunque cosa può dar luogo ad arti diverse da quelle del passato”, senza dimenticare che lo stesso Isou aspirava ad essere un secondo Abulafia. Comprensibile desiderio in virtù del fatto che l’enorme mole di tavole cabalistiche, concepite sempre a fini mistici, sono state da lui elaborate manualmente e mentalmente. Oggi un simile procedimento artigianale sarebbe inconcepibile davanti al deflagrante uso del computer. Infatti è la tecnologia che domina la scena artistica, e spesso porta alle estreme conseguenze una tendenza destruens, dimenticando la lezione di Moholy-Nagy che aveva cercato di introdurvi l’aspetto della consapevolezza.

Sol LeWitt, collocandosi nel lato construens, snocciola frasi che affossano una volta per tutte l’aura dell’opera, “le idee possono essere di per sé opere d’arte”, “nessuna idea ha bisogno di essere resa fisica” e  “tutte le idee sono arte se riguardano l’arte e rientrano nelle convenzioni dell’arte”, siamo nella fine degli anni Sessanta, e Abraham Moles in un suo famoso manifesto sull’arte permutazionale (1961) anticipa di qualche decennio il futuro, “ l’artista, geniale o no, è un programmatore, come lo saremo tutti”.

 

Mario Costa, Ebraismo e Arte Contemporanea, Clement Greenberg, Arthur Danto, Isidore Isou, Abraham Moles, Milano-Udine, Mimesis, 2020.

 

 

8 luglio 2020

Namely vale a dire

 

Namely il titolo di quest’ultimo CD di Beth Anderson suona perfetto, namely viene tradotto con vale a dire, con cioè, ossia, comunicare lo stesso significato in modo diverso. Il termine inglese ha la radice name = nome, in italiano potrebbe anche essere reso, forzando la traduzione, con nominalmente, per evocare il potere sciamanico del nome. Non c’è dubbio che questa opera sonora è un inno al mistero dei nomi che, al di là del loro origini filologiche, suscitano analogie e libere associazioni.

Namely prende una strada diversa da quella di Robert Ashley In Sarah, Mencken, Christ and Beethoven There Were Men and Women del 1974 dove i nomi e cognomi vengono assemblati così come sono dentro un contesto narrativo in una sorta di festival dei nominativi, ed è altresì distante dai Poemi Cognomi (1988) dello scrivente, dove i cognomi erano stati scelti come lessico alternativo rispetto alla lingua italiana senza alterazione alcuna.

Qui, a differenza delle due opere appena citate dove il registro di sperimentazione si manteneva al livello orizzontale, l’ascoltatore avverte la dolce voce di Beth che precisa come un trapano scava dentro le viscere del nome in maniera del tutto verticale, dall’alto verso il basso. Si parte dal consolidato schema nome+cognome, dopo qualche schermaglia di tipo intraverbale, per esempio ok in Yoko Ono, o Jack in Nam June Paik, si passa alla paronomasia attraverso lievi storpiature, per esempio rocks in Kurt Scwitters o destein ma anche destine in Gertrude Stein. Il processo avanza spedito attraverso una inarrestabile decomposizione della coppia nominale di partenza per approdare con sistematica riduzione fino al singolo fonema che sancisce la fine del poema stesso. Durante lo sviluppo del tema s’odono fortissime sonorità sia vocaliche sia consonantiche che alludono coerentemente alla lingua d’origine del nome trattato, questo richiamo risulta abbastanza evidente per l’armeno nel caso di Charles Amirkhanian, per l’olandese per Jaap Blonk e anche per l’italiano nel caso nostro.

Sarebbe molto interessante pubblicare quelli che io chiamo schemi di esecuzione, (pattern executions), nel booklet che accompagna il CD, viene presentato solo quello di John Cage, perché anche visivamente il fruitore si renderebbe subito conto del certosino lavoro di decostruzione svolto nel breve spazio di due  minuti. Più che di poesia visiva io parlerei di poesia concreta, non quella di marca brasiliana degli anni Cinquanta, mi sto riferendo ad alcune tavole composte da religiosi attorno all’anno 1000 come i carmi cancellati o anche ad alcune esperienze della cabala non convenzionale come in Abulafia.

Namely  consiste di una sessantina di poemi che sono altrettanti omaggi a persone che lei, Beth Anderson, stima e ritiene essere stati importanti per la sua carriera, ogni brano non supera i due minuti, quindi vuol dire che ha chiaro il fondamentale rapporto tra durata ed effetto. Ed a me sembra altrettanto chiaro il filo rosso che lega Namely a I wish I were single again che è del 1981, pubblicato nel n.3 della mia rivista-disco a 45 giri 3ViTre nel dicembre del 1983. L’inizio è dato dalla frase I wish I were single again che attraverso il medesimo processo di disintegrazione applicato ai nomi e cognomi, viene triturata fino al finale Ain / Iw / In  /Ia / N.

Tecniche permutative e trasgressive vengono applicate con maniacale insistenza verso la verginità lessicale, ma dopo un ascolto attento dei 65 pezzi, resta nelle orecchie una sensazione melodica, oserei dire eufonica che in qualche modo contrasta con la sfrontatezza del taglio decisamente sperimentale, ma questo si spiega facilmente con la concezione musicale che Beth ha della poesia sonora, infatti dichiara che “I love making music ouf of words and thinking of music as words. They are always just inside out of each other”.

 

Beth Anderson, Namely, San Francisco, OM Other Minds Records, 2020. (CD)

 

29 giugno 2020

Il giocoliere della parola

 

L’opera di António Aragão sorprende sempre perché ha un rigore verbo-visivo che la proietta in un territorio universale che sicuramente la farà r/esistere a lungo. Mi sto riferendo alle Electrografias, create negli anni 80, apparse nel 1990 e ripubblicate due anni fa, immagino per commemorare il decennale della sua scomparsa avvenuta nel 2008. Si avvale di immagini forti prelevate dai media, per esempio la polizia che picchia i manifestanti, una folla di pugni chiusi, una mamma che tiene per mano il proprio figlioletto, immagini che attraverso la tecnica della copy art  lui altera deformandole o sfocandole. L’opera si presenta in bianco e nero o a volte come in alcuni esemplari che ho in archivio, a colori. Poca concessione al bello estetico perché la forza di queste tavole sta nella scelta linguistica che indirizza il messaggio. E per comunicare quanto ha in mente, non rinuncia al gioco di parole come in  “to do business to dos” o al nonsense “com putador! com puta dor!”. Considerata la forte ripetizione iconica, la sua ricerca si sbilancia dalla parte della lingua, e pertanto si può dire che non è la sua una poesia visiva né tanto meno una poesia visuale, quanto una poesia narrativa. Per sviluppare la  critica alla società, dar libero sfogo al sarcasmo contro il capitalismo, è quasi obbligato a far leva sulla parola. Emblematica quella tavola che ci mostra due signori che calano le braghe per defecare, con la scritta “ cri cri cri cria dor”.

La sua attrazione verso il linguaggio viene ancora una volta evidenziata da un’opera come Os bancos antes da nacionalização, composta durante la dittatura ma pubblicata nel 1975,  in archivio ne ho una copia con quella data, ed ora anch’essa ridata alle stampe. Mentre nelle Electrografias era ancora la scrittura manuale a farla da padrone, qui l’assetto generale è più concreto nel senso della poesia paulista, il che gli permette di dar fondo ad una girandola di tecniche sperimentali per modificare la parola stessa, vissuta come estrema contraddizione, sia essa materia da adorare ma nel contempo da superare trafiggendola. Il tema del banco viene trattato o bistrattato in tutti i possibili e praticabili moduli che sono poi quelli consolidati della neoavanguardia. Così dispiega ancora una volta tutta la sua sensibilità verso la parola che occupa un posto principale almeno in questa tipologia di sperimentazione. Formidabile il gioco lessicale in “Basta (ASS) ASSINAR” dove il termine assassino si sovrappone al termine assinatura (firma).

Che la sua impostazione fosse letteraria lo si evince anche dall’opera sonora Povo/ovo 1978-90 pubblicata nel n.22 di Baobab, 1992, Voci ispano-portoghesi da me curato e ripreso nel numero uno di GroundSound nuova rivista di poesia sonora. La parola regge l’urto disgregante nonostante venga sottoposta a vari trattamenti per cui vacilla come era prassi consolidata a quei tempi, a cominciare dal gioco intraverbale del titolo stesso.

António, ho avuto la fortuna di conoscerlo e bene nell’estate del 1990 a Città del Messico durante una dei tanti festival di poesia organizzati da César Espinosa e Aracoeli Zuñiga. Con il suo berretto nero da lennista era un perfetto filosofo della parola prestato al mondo dello sperimentalismo. Il suo forte impegno politico lo portò a fondare la Vala Comun, un archivio dove poteva raccogliere tutta la gamma di lavori alternativi ma anche un rifugio per realizzare quei progetti che l’istituzione perbenista e conservatrice si rifiutava di realizzare. Entrò a pieno merito in quel circuito che allora si chiamava Arte Correo per diffondere un prodotto non convenzionale. La Mail Art ha anticipato per certi versi l’attuale Internet anche se era più proiettata verso il versante artistico, si consulti questo Manifesto della Mail Art del 1982.

António era originario di Madeira, la sua isola poetica si è trasformata in un continente affollato e praticato perché alla coppia verbo-visiva ha aggiunto l’essenziale terzo elemento il vocale e quindi ha tutte le carte in regola per rivivere ed essere ricordato per sempre.

 

 

António Aragão, Electrografias, a cura di Rui Torres e Bruno Ministro, Lisbona, Busílis, 2018.

António Aragão, Os bancos antes da nacionalização, Lisbona, Livraria Tigre de Papel, 2019.

GROUNDSOUND 1, the voice as a work of art, Vittorio Veneto, Second Sleep, 2019. (LP)

 

 

29 giugno 2020